Madras, capitale dello stato del Tamil Nadu al sud est dell'India, è la quarta città del sub continente. Ha quattro milioni di abitanti e bidonville che hanno poco da invidiare a quelle di Bombay o di Calcutta. Le sue strade sono a affollate di gente giorno e notte. Alla sera i marciapiedi dei viali si coprono di disperati che non hanno nemmeno una baracca dove ritirarsi: passeranno la notte accanto alle mucche sacre, ai cani randagi, ai rifiuti. Al mattino la polizia passerà a toccare con un bastone questi poveri corpi avvolti nella loro miseria; per chi non si sveglia è il rogo comune; il funerale dei poveri.
Di qui inizia il viaggio che ho compiuto, grazie a una organizzazione italiana che da anni si batte per lo sviluppo agricolo dell'India: il movimento di ispirazione cattolica Sviluppo e Pace di Torino.
Sviluppo e Pace è partner di un movimento indiano di ispirazione gandhiana, il Sarvodaya (che significa il benessere per tutti), fondato dall'ereda spirituale di Gandhi, Vinoba Bhave. Vinoba, dal '51 agli anni settanta, fu il protagonista di una rivoluzione agricola basata non su una legge o sulla violenza ma sulla fratellanza. Percorse l'India da nord a sud, 90 mila chilometri a piedi per chiedere ai latifondisti di donare una piccola parte delle loro terre ai contadini più poveri. Fu così alla testa di quello che fu detto il movimento Boodhan (cioè dono della terra): nel 1961 le terre raccolte ammontavano a due milioni di ettari. Furono approvate legge governative per distribuirle ai contadini. Ma la bella favola sta per avere una brutta fine. Senza risorse e senza adeguati aiuti i contadini non potevano sviluppare l'agricoltura sui terreni loro donati, spesso aridi e di difficile coltivazione. Il momento Sarvodaya che aveva provocato la distribuzione delle terre sembrava incapace di gestirne lo sviluppo. I terreni vengono in gran parte abbandonati, i contadini continuano a lavorare come braccianti, e in India questo significa lavorare per poche rupie al mese o addirittura come 'schiavi' per pagare i debiti contratti con i latifondisti, che fanno loro firmare contratti in cui sono impegnati a lavorare, per tutta la vita, loro e i loro figli.
La spinta decisiva arriva dall'Italia, da Sviluppo e pace, appunto. Siamo nel 1968; va in India un professore di Filosofia vulcanico e organizzatore. A 60 anni inizia a dedicarsi ai fratelli più poveri (lo fa ancora oggi che ne ha 84). Sviluppo e pace finanzia così progetti di sviluppo agricolo in alcuni villaggi. Nasce l'Assefa, cioè l'organizzazione delle fattorie Sarva Seva Farm (letteralmente fattoria al servizio della comunità). I soldi arrivano dai cattolici torinesi del Servizio Diocesano Terzo Mondo. A Sevalur e a Padukottai, nel Tamil Nadu, si dà inizio al primo progetto di sviluppo agricolo fondato sull'utopia gandhiana: 70 acri di terreno ingrato sul quale si stabiliscono 35 famiglie. Ogni famiglia mette a disposizione un uomo giovane che lavora sulle nuove terre. Con loro va a vivere uno dei dirigenti dell'Assefa. Il ricavato dei prodotti viene diviso in tre parti: una resta alla famiglia, una va all'Assefa in restituzione dei prestiti fatti e per lo sviluppo di nuovi progetti, una terza va all'assemblea di villaggio per i bisogni comuni, a gestione cooperativa. Il successo fu pineo. Il sogno gandhiano di una economia, basata sull'artigianato tradizionale e sui prodotti tipici del villaggio, lentamente si realizzava. Oggi le fattorie Sarva Seva sono 70. In tutti i progetti che ho visitato nel mio viaggio all'estremo sud dell'India, fra Madras e Madurai, lo stesso risultato: terreni aridi coltivati razionalmente, contadini, soprattutto delle caste più basse (e le caste nella mentalità indiana sono ancora una realtà), che un tempo erano braccianti poveri e sfruttati, trasformati in agricoltori capaci, riabilitati socialmente ed economicamente. Vengono sviluppate anche le industrie di villaggio: dalla produzione di dolci tipici, alla lavorazione della seta, alla produzione di olio di semi, di carta, alla confezione di abiti. In ogni villaggio si formano i Gran Sabha (le assemblee) con pieni poteri e vi partecipano anche le donne. L'Assefa manda un Sevah, un istruttore, che vive la dura vita dei contadini. Sono persone molto motivate idealmente. Oggi molte organizzazioni internazionali appoggiano questi progetti: l'Assefa ha in cantiere un intervento su larga scala, in collaborazione con lo Stato del Tamil Nadu, lo sviluppo di 160 villaggi.
C'è però ancora molto da fare. Solo il 30% delle terre Boodhan è stato messo a coltura. In certi Stati le forze più reazionarie osteggiano i progetti Assefa.
Lascio le strade polverose dei villaggi, le capanne di fango e foglie di palma, i sorrisi dei bambini e delle bambine, la dignitosa povertà che non manca dell'essenziale e ripiombo nelle strade di Madras: mi assale l'odore tipico delle città indiane, fatto dagli aromi di fritture strane, dallo sterco, dai rifiuti, mischiato con il caldo umido e pesante. Mi accolgono i viali, dove la gente vive e muore, con incredibili cartelloni pubblicitari, coloratissimi, che reclamizzano un consumismo per pochi o il divertimento per molti (i film strappalacrime tipo «sceneggiata» napoletana). Al mercato dei consumi partecipa un indiano su dieci, circa 70 milioni su oltre 700, in uno sviluppo convulso e contraddittorio, con isole di industrializzazione che aumentano il tenore di vita ma creano un inurbamento disordinato e disperato.
L'Aereo che mi porta a Bombay, al ritorno verso l'Italia, sorvola una immensa distesa di lumini: è una incredibile e miserabile baraccopoli di 4 milioni di disperati. Ho nella mente il messaggio del Sarvodaya, il benessere per tutti; il principe come il contadino, l'hindu e il musulmano, il bramino come il senza casta, bianchi e neri. Tutti sono eguali e mettono in comune il frutto del proprio lavoro. La forza di un grande ideale che ho visto incarnato in una piccola, per ora piccolissima, porzione di India.


