Spesso, chi si è opposto pubblicamente alla legge 194, è stato accusato di sventolare ancora, con qualche secolo di ritardo, il lacero vessillo dell'oscurantismo cattolico: mentre il progresso incalza e la mentalità laica si emancipa dalla pesante tutela dei dogmmi, i pronipoti della controriforma pretendono di imporre ad una società ormai matura le proprie restrizioni sessuofobiche, le proprie nostalgie maschiliste.
Dopo le conquiste civili e politiche degli anni '70 – dalla legge sul divorzio alla riforma del diritto di famiglia – la legge sull'aborto si pone dunque come un ulteriore passo avanti dello schieramento progressista e riformatore.
È vero, lo scontro non è finito, ma è pur sempre una «guerra dei lumi» contro rigurgiti del bigottismo. E alla fine, come di vede anche nei film western, i buoni vincono sempre...
Così, un po' perché abbiamo imparato a diffidare di quel genere di film e un po' perché le battaglie perse in partenza non entusiasmano nessuno, ci piace andare a vedere chi è che, in questa storia, fa la parte del cow-boy e chi quella dell'indiano.
Della quale storia, tanto per cominciare, non tornano i protagonisti: perché l'immagine di una società italiana fatta di impavidi alfieri dei diritti civili che lottano per la libertà contro clericali frustrati e oscure beghine ci sembra materia da cattiva letteratura.
Ma della quale, per la verità, non torna neanche l'oggetto: perché trattare l'aborto alla stregua di un diritto soggettivo – il quale, per i giuristi, consiste in un potere attribuito al soggetto a tutela di un interesse proprio – trascura quanto meno che esiste un altro interesse in gioco, quello del nascituro.
Per cui, in sostanza, questo quadro va rivisto, magari attenuando i colori, ma soprattutto tracciando di nuovo il terreno cultirale, sociale e di costume su cui si svolge la battaglia.
Infatti, girando ogni giorno per le strade, ci sembra sempre meno vero questo conflitto presunto fra laici e cattolici sul crinale del progresso e sempre più importante il confronto fra l'etica «radicale» e la cultura della solidarietà sul crinale del rispetto per l'altro uomo.
Ci sembra, in sostanza, che una sensibilità diffusa attraversi in modo strisciante un po' tutti gli ambiti culturali, ivi compreso certo cattolicesimo opportunista: una sensibilità che pone come criterio dominante dell'azione il raggiungimento del piacere e del successo personale; che dà vita ad un'etica nuova, eppure vecchia, la quale rifiuta ogni mediazione dell'interesse individuale con quello collettivo – perché scompare ogni idea di disponibilità nei rapporti con gli altri – e ogni mediazione dell'interesse presente con quello delle generazioni future – perché l'unico tempo che interessa è quello che può essere vissuto e goduto dall'uomo radicale. Il motto di questa cultura potrebbe essere: «Considera l'altro come mezzo e mai come fine». Il suo prodotto è invece «l'uomo a una dimensione» o meglio quel tanto di uomo a una dimensione che vive dentro a ognuno di noi e che si manifesta nell'apparente innocenza di mille comportamenti quotidiani: dal rifiuto costante di pagare di persona i propri errori al convincersi sempre di essere la vittima della prepotenza altrui, al fare del corporativismo e della furbizia fiscale un vangelo professionale, al godere beati dei consumi più riduttivi, impostando i rapporti con gli altri in termini di potere e di successo.
Ci sembra poi che l'abortismo libertario costituisca l'esito coerente, anche se non estremo, di questa antropologia: che cioè parlare dell'aborto come di un diritto civile, in base al noto aforisma «l'utero è mio e lo gestisco io» sia il frutto omicida dell'individualismo edonista e possessivo, il quale a tal punto dimentica e comprime l'interesse altrui da parlare di autodeterminazione della donna e di esercizio della libertà, anche quando è in gioco la determinazione violenta e unilaterale. quindi autoritaria, del destino altrui; che l'unica colpa del nascituro sia di non avere abbastanza forza contrattuale per imporre ad alta voce il proprio interesse a vivere, in un paese che si commuove in difetta quando la morte casuale e drammatica di un bambino in fondo a un pozzo fa spettacolo, ma che protesta infastidito quando un giornalista coraggioso come Biagi trasmette le immagini agghiaccianti di un feto che si difende dalla «aspirazione», mettendo così in discussione le proprie certezze.
E ci sembra infine che la legge 194 sia, dell'abortismo libertario, una traduzione normativa fedele, senza alcuna seria casistica, senza che siano accolte altre valutazioni se non quelle della gestante.
E, per la verità, senza possibilità di difesa neanche sul piano dei risultati – come la presunta eliminazione dell'aborto clandestino o l'attenuazione di quello legale – che erano uno degli argomenti degli antiabortisti favorevoli alla legge: anzi, col grave neo di avere accelerato nella gente l'indifferenza al problema, stante la naturale identificazione che la coscienza collettiva opera tra ciò che è giuridicamente lecito e ciò che è moralmente giusto.
Allora, se proprio si vuole parlare di progresso e di conservazione, ci pare che nel polo della conservazione abbiano diritto a un posto d'onore tutti quelli che si travestono da difensori dei diritti civili e della donna, imponendole in realtà un modello di emancipazione che scimmiotta tristemente la figura integrata del maschio di successo; e, più in generale, tutti coloro che, al di là delle bandiere, professano coi fatti un modello antropologico individualista e predatorio e una visione riduttiva dell'uomo come consumatore e arrampicatore sociale, cioè la figura più funzionale ai meccanismi formidabili della civiltà consumista. E tra questi ci dispiace annoverare ormai gran parte di quello che era una volta il mondo comunista, al quale la tradizione marxista aveva consegnato la splendida figura dell'«eroe rosso» di Ernst Bloch – l'uomo capace di sacrificare se stesso per realizzare un ideale – e al quale rimane soltanto un sinistrismo annacquato e molta voglia di essere alla moda.
Mentre, se progresso significa emancipazione delle coscienze da tutte le mitologie, comprese quelle «secolarizzate», e lotta per una convivenza non violenta fra gli uomini, ritroveremo da quella parte un'autentica cultura della solidarietà e della gratuità, capace di tutelare gli interessi dei deboli e di riscoprire la dimensione più completa della persona.
In fondo, nella confusione delle culture politiche, il rispetto della vita più piccola è il simbolo dell'unica vera rivoluzione: il rispetto di tutte le vite!




