Vietnam

Vietnam dieci anni dopo

Nuova Politica - Vietnam dieci anni dopo pagina 11
Nuova Politica - Vietnam dieci anni dopo
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Nuova Politica - Vietnam dieci anni dopo
Il 30 Aprile 1975 cadeva Saigon. Gli Stati Uniti, il Vietnam, il resto del mondo e un mito che è crollato. La «sporca guerra» influenza ancora le scelte degli Stati Uniti nella politica estera. Il Vietnam, un altro paese in cui il socialismo reale è ben diverso dall'utopia comunista.

«Prima o poi sarebbe successo / tutto il mondo lo sapeva / ma così grande e così bello / nessuno se lo aspettava / La mattina del 30 aprile quando i carri dei Vietcong / dopo trenta anni di guerra entrarono a Saigon...» cantava così Eugenio Finardi (che allora non partecipava al Festival della canzone italiana di Sanremo...) l'epopea del Vietnam: il popolo contadino rivoluzionario, la sconfitta dell'odiato imperialismo americano, la vittoria del pacifismo europeo e l'annunno di una nuova era. Ad un qualsiasi polemista basterebbe confrontare le roboanti affermazioni di allora, di cui ne ho riportate solo una minima parte, per ricevere sorrisi di commiserazione braccia aperte in segno di sgomento. Ma non fa parte, credo, della nostra cultura di callolici democratici. analizzare la stona a colpi di slogan. E dunque. cosa è rimasto a dicci anni dalla presa di Saigon di quella «malcdclla e sporca guerra» negli Stati Uniti, nel mondo, nel Vietnam stesso? E quante espressioni di allora furono solo emotive, irrazionali, oppure comprensibili, logicamente·legate ai tempi? Coloro che maggiormente vivono questi dubbi oggi, non vi è dubbio, sono i cittadini statunitensi. E non solo perché ricorrono dieci anni da quella fatidica data, ma perché da qualche anno si vive un generale clima di riflessione critica su tutti i vari atteggiamenti passati sul caso-Vietnam. Non starò qui ad analizzare ogni singola visione espressa dal mondo della cultura o della politica, o anche dal cittadino medio degli Stati Uniti, ma è innegabile che il «Memoriale» fatto costruire dal Presidente Ronald Reagan a Washington, su cui, nella lucida facciata si allineano i nomi di 58.022 caduti statunitensi compresi tra il soldato scelto Jàmes Davis (22 dicembre 1961) e il caporale Darwin Judge caduto il 29 aprile 1975, ha riaperto una ferita tuttora viva nella vita del popolo nordamericano. Dopo gli anni del silenzio e della vergogna, films come «Tracks, lunghi binari della follia», o «Tornando a casa» o i più conosciuti dal grande pubblico «Il Cacciatore» e «Apocalypse Now» avevano già spettacolarmente riproposto spunti per un dibattito meno fazioso, meno ideologico, forse, di quello degli anni precedenti.

Certo, opere artistiche come per esempio i film, non partono mai da posizioni che non hanno voce nel retroterra culturale di una nazione. E soprattutto non partono mai da una totale mancanza di contatto con la realtà. Quali sono dunque i presupposti delle attuali posizioni negli Stati Uniti sulla «sporca guerra»? Per capire le attuali posizioni bisogna osservare con correttezza cosa il Vietnam ha comportato nei fatti per varie strutture del Paese. Uno degli atteggiamenti più diffusi negli USA è che la guerra del Vietnam fu persa prima ancora che sul terreno sulla stampa, sui mass-media, per la stampa e per i mass-media. Ora è innegabile che tanta e tale fu la mole di informazioni, reportages, inchieste, foto e documentazione
filmata altamente suggestiva e reale, che le tante mobilitazioni contemporanee e emotivamente simili in paesi diversi per natura e temperamento derivarono proprio dal fatto che per la prima volta gli Stati Uniti viderò una loro guerra in diretta, videro borbardamenti ed esplosioni in cui potevano esserci loro parenti, amici, fidanzati o padri. Questo determinò inoltre una prima differenza che, a distanza di anni, oggi possiamo rilevare: le manifestazioni dei campus americani avevano molto poco a vedere con il maggio '68 e l'autunno caldo come invece molti, anche in Italia, credettero. La maggior parte degli studenti dava vita ad un movimento intrinsecamente «egoista»: «Non voglio andare a morire in un paese che non è il mio, per ragioni che non sono le nostre». E non a caso quando nel 1973 Nixon abolì la leva obbligatoria il movimento rallentò e dopo poco si affievolì del tutto. Se dopo ciò noi consideriamo che, proprio poco dopo lo smacco della presa di Saigon, scoppiò a causa della stampa il caso «Watergate», si capisce bene come le affermazioni ricorrenti oggi soprattutto tra i «falchi repubblicani» di «tagliare le unghie alla stampa» deriva in maniera diretta da allora. Consideriamo l'affermazione del diplomatico USA a Saigon Jacobson. «Per vincere una guerra occorre la censura; nessuno vince una guerra se si vede il sangue in televisione» e confrontiamola col comportamento di Reagan che nel recente «caso Grenada» ha precluso alle televisioni ed ai giornali le comunicazioni per tre giorni! Un'altra fascia istituzionale colpita dalla «sindrome del Vietnam» è la diplomazia: l'attuale rigidezza diplomatica degli Stati Uniti, le divisioni tra Shultz e Weinberger, fautori l'uno di interventi militari anche se limitati, l'altro di interventi solo in funzione di qualcosa che sia «sentito» dal resto della nazione, non nascono forse proprio dalle diverse giustificazioni dell'intervento e del risultato dell'intervento in Vietnam? Non ripropongono forse nell'attualità la posizione di chi crede, da un lato, che la guerra in Vietnam» fu persa perché non si ebbe il coraggio di vincerla intensificando bombardamenti e presenze statunitensi per paura delle ripercussioni di immagine e dall'altro di chi crede che comunque si sarebbe persa una guerra assolutamente estranea al popolo statunitense? L'attualità della politica statunitense pare mutuare proprio da quegli anni, come è logico, certi comportamenti ormai usuali. Le polemiche e gli attriti attuali tra il Presidente Reagan e il Congresso per la concessione di aiuti ai «contras» nicaraguensi da dove derivano se non dalla frattura profonda imposta dal Vietnam e che si concretò nel «War Power Act», che costringe il Presidente degli Stati Uniti ad avere un voto di fiducià entro 90 giorni dall'invio di truppe americane in zona di combattimento! E comunque, di fronte a tante opinioni, variegate quanto lo possono essere quelle relative a fatti recenti della memoria personale e collettiva, un punto fermo può essere messo: il sondaggio più accreditato, riportato sia da Time che da Newsweek nelle loro inchieste speciali a dieci anni dalla fine della guerra del Vietnam, dicono che se nel 1965 un americano su quattro riteneva la guerra un «errore», e nel maggio del 1970 la percentuale era salita al 56%, ora con la presidenza Reagan eletta dal 60% degli americani coloro che ritengono al guerra del Vietnam un errore sono il 63% dei cittadini degli Stati Uniti.

Questo il giudizio, sintetico, del popolo americano a dieci anni da una guerra in cui furono impiegati 2 milioni e 600 mila soldati, con un bilancio di 52.022 morti, 75.000 mutilati e invalidi gravi, 300.000 feriti, 150.000 miliardi di dollari di armamenti e, se volete contarli, 102 reduci suicidi.

E il Vietnam? «Il piccolo contadino David – come fu definito da molti commentatori dell'epoca –, armato solo di fionda (made in Cina e Urss) che ha sconfitto il Golia imperialista?». I «figli della rivoluzione» il primo maggio scorso hanno festeggiato la vittoria di dieci anni fa con una immensa parata nella città di Ho chi minh (l'ex Saigon). Quasi 100.000 soldati, armati fino ai denti, hanno sfilato (non è dato sapere se... al passo dell'oca) davanti al leader Le Duan, assente il grande eroe della vittoria vietnamita di allora Vo Nguyen Giap, e mentre il primo segretario della città arringava i presenti circa i pericoli provenienti dalla Cina (allora alleata di Hanoi).

Tutto ciò mentre il Vietnam sostiene militarmente e politicamente Hang Samrin, imposto al potere in Cambogia contro il precedente dittatore Poi pot, leader dei Khmer rossi, che ora, alleati con la Cina combattono contro il Vietnam per la «liberazione della Cambogia». E mentre quasi giornalmente le truppe vietnamite sconfinano in Thailandia.

Questi fatti parlano da soli e da soli fanno giustizia di tante demagogie e di tanto fumo ideologico degli anni passati; ma abbiamo detto che vogliamo capire e per farlo dòbbiamo ritornare indietro, per più tempo che questi famosi dieci anni. La grande contestazione studentesca e sindacale del '68 venne a coincidere con le ripercussioni della vittoria militare vietnamita della famosa «offensiva del Tet», scatenata da cinquantamila vietnamiti il 30 gennaio 1968: sul piano propagandistico, per una Unione Sovietica ed una Cina ancora lontane dagli screzi degli anni a venire tutto ciò era meravigliosamente coincidente. Non era forse possibile affermare l'inizio di una nuova era? Lo smacco americano, la crisi delle società capitalistiche, contestate dalle loro stesse nuove generazioni, l'avanzata della rivoluzione comunista nel mondo! Ma quello fu l'ultimo (e unico, a posteriori) momento di coincidenza e di univocità di un movimento internazionale a favore di qualcosa che doveva ancora venire e che proprio per questo manteneva ancora la sua forte carica di idealità. Di lì a poco e proprio all'interno dello schieramento «rivoluzionario e comunista» tutto cambierà! Proprio quella che sembrava allora la vittoria di un popolo contadino, che non aveva conosciuto le «alienazoni marxiane» tipiche dei paesi industrializzati, fu la causa scatenante della divaricazione ideologica (ma che nascondeva anche altri interessi) tra la Cina e la Russia. E la sinistra estrema occindentale, cominciò a sentire il fascino della rivoluzione culturale nata in oriente, «realizzata» in Cina, che traeva conferma dalla vittoria in Vietnam.

La rivoluzione sarebbe passata – lo confermava quella... setta illuministico-avanguardista, che erano i «maoisti» – non più per le città industrializzate, dove il ceto operaio rischiava di essere omologato, ma «dalle campagne del mondo».

Come ha più volte ricordato la stessa Rossanda del «Manifesto», gli «studenti (illuminati (?) ndr) cominciarono con “libertà per il Vietnam” e finirono con “Marx, Mao, Ho Chi Minh”».

Eppure, dicevamo, «quel grande movimento internazionalista» si cominciò a sfaldare proprio allora. Per questa nuova diversa rilevanza ideologica i rapporti tra Urss e Cona si raffreddarono, il sud del Vietnam non insorgeva in aiuto del nord come qualsiasi apprendista illuminisa-rivoluzionario di allora si sarebbe aspettato viste le grandi premesse; e i grandi movimenti di sinistra occidentali si dispersero in partiti e partitini a seconda del loro pensiero sul metodo con cui fare la rivoluzione, per cui alcuni rientrarono nei canoni del socialismo democratico, altri decisero che era giunto il momento di fare le avanguardie armate della lotta operaia anche in occidente (Raf, Br...). E dopo la vittoria? La crescita di un paese totalitario, militarista, imperialista (secondo le stesse categorie marxiste), nei confronti dei «paesi fratelli», Cambogia, Laos, Thailandia, e fortemente dipendente da un'altra superpotenza quale la Russia. Un paese che ancora una volta dimostra l'impossibilità dell'esistenza di un socialismo dal volto umano; in cui anzi si contraddicono i principi basilari della democrazia socialista. Che uguaglianza può esserci in un paese che pur di mantenersi forte affama il proprio popolo, lo lascia analfabeta, lo rende dipendente da una superpotenza?

Dunque, a dieci anni da quella vittoria (?) cosa resta, e cosa ci può avere insegnato quella «lunga e maledetta» guerra? Se dovessimo fare un bilancio da ciò che abbiamo visto, scritto o riportato come opinione dovremmo da una parte essere più tranquilli, che gli anni hanno cancellato certi facili schematismi, hanno reso più scientifico il dibattito sui fatti, soprattutto perché proprio i fatti, una volta tanto, hanno chiarito il dibattito.

D'altro canto, se pensiamo alle opinioni di coloro che ancora non sanno vedere, nella tragedia attuale del Vietnam, una logica errata che nasce dall'ideologia stessa di partenza di una tale realtà, se ascoltiamo le ragioni di coloro che ritengono che l'unico modo di uscire dalle difficili situazioni politiche internazionali sia la forza bruta o l'ingerenza di fatto nella vita delle altre nazioni, non possiamo non sentirci preoccupati, consci che i fatti internazionali non sono e non possono essere estranei alla nostra vita, soprattutto per dei cristiani impegnati in politica, e che quindi non dovrebbero conoscere limiti o confini di sorta nel «servizio al mondo». Tragedie come quelle ancora quotidiane dell'Afghanistan o i «distinguo» sulla situazione in El Salvador, o i «punti caldi» quali il Nicaragua, e tutte quelle situazioni antidemocratiche che vivono ancora paesi sotti regimi dittatoriali, o in cui si giocano equilibri di morte tra superpotenze o tra paesi che si reputano civili, richiedono grande realismo, e quindi anche grande attenzione alla storia. Dal Vietnam, dieci anni dopo, ne escono tutti un po' male, protagonisti e «spettatori interessati». Spetta a loro, e a noi, essere d'ora in poi dalla stessa parte, quella del negoziato e del diritto dei popoli all'autodeterminazione ed alla pace; non potremo dire stavolta che «non sapevamo».

Il Vietnam nella memoria

Dieci anni or sono, con la fine del conflitto tra Washington ed Hanoi, si concludeva uno dei capitoli più cruenti della storia del nostro tempo.

La guerra del sud-est asiatico aveva profondamente scosso la coscienza e segnato le aspirazioni di pace del mondo intero.

A dieci anni di distanza gli ideali di pacifismo che avevano pervaso l'America, coinvolgendo emotivamente soprattutto le nuove generazioni, restano solo un ricorso in parte affievolito dalle profonde trasformazioni socio-culturali che hanno investito la società americana.

È da tempo in atto negli Stati Uniti un riesame critico degli eventi storici e delle considerazioni strategiche che accompagnarono gli avvenimenti bellici nel sud-est asiatico, così come appare più spiccato il pragmatismo nell'analizzare le cause e le motivazioni primarie dell'intervento militare.

Non sono stati certo cancellati i ricordi delle atrocità commesse da entrambe le parti, sono piuttosto mutati gli atteggiamenti dell'opinione pubblica nei riguardi di un evento che ha così profondamente segnato la nostra epoca.

Le stesse spinte emotive, provenienti soprattutto dalle sinistre europee, che inneggiavano alla liberazione del popolo vietnamita sembrano oggi lasciare spazio ad un nuovo realismo dettato dalla stessa evoluzione politica che il governo di Hanoi da inteso perseguire in questi utlimi anni.

Gli stessi mezzi di comunicazione di massa, sopo aver lungamente ignorato e dimenticato il Vietnam, sembrano ora rivolgere rinnovate attenzioni alle viariegate tematiche che il conflitto ha sollevato.

Nel film «Taxi driver», Robert De Niro è un veterano psicopatico incapace, al suo ritorno in patria, di cancellare dalla mente i ricordi delle violenze e frustrazioni accumulate durante il conflitto. La follia omicida del reduce, colpendo indiscriminatamente, si manifesta metaforicamente come spietato atto di accusa nei confronti dell'intera società americana.

Nel film «Tornando a casa», i problemi dei veterani, affrontati prevalentemente in chiave melodrammatica, non vengono deguatamente sviluppati. La veste narrativa del film, emarginando volontariamente gli eventuali spunti analitici e di riflessione, specula sui sentimenti dello spettatore fingendo di fargli acquisire la conoscenza e la consapevolezza dei drammi umani e sociali che la guerra ha purtroppo lasciato in eredità. 

Il tema del Vietnam è invece trattato solo incidentalmente in «Hair»: il film di Forman prende spunto dal conflitto per rievocare utopie, sentimenti, ideali che accompagnarono una generazione dedita a rifondere radicalmente la cultura sociale ed a reinventare l'esistenza.

Ne «Il Cacciatore» di Cimino si presentano le vicende di tre amici che trascorrono il tempo libero cacciandocervi sui monti della Pennsylvania, fino al momento in cui la guerra del Vietnam non reclamerà anche la loro partecipazione.

Solo uno dei tre protagonisti del film riuscirà a recuperare parte della propria integrità: scampato alle atrocità della guerra tornerà sui monti alla caccia dei cervi ma non troverà mai più la forza di ucciderli.

Gli orrori del conflitto segneranno invece irrimediabilmente i suoi due amici: l'uno resterà paralizzato su una sedia a rotelle dalle pesanti mutilazioni subite, l'altro (vittima della droga e della propria pazzia) troverà la morte nel terribile suicido della roulette russa.

Mentre le tematiche della follia e dell'assurdo riappaiono nel film «Apocalipse now», nel più recente «Urla del silenzio» emergono invece elementi realistici: il dramma della guerra diventa la cronaca di una penosa separazione tra un corrispondente di guerra in Cambogia ed il suo più stretto collaboratore, il ritrovato abbraccio tra i due cancellerà solo in parte il ricordo delle privazioni subite, delle tragedie vissute, dell'umanità violata.

Il Convegno del coraggio
Giorgio Merlo
In difesa della vita
Simone Pistelli

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