Lettera aperta

Barbone e Ferrandi: lettera aperta ai giovani DC

Nuova Politica - Barbone e Ferrandi: lettera aperta ai giovani DC pagina 3

La spessa coltre della quotidianità, la subdola apatia dell'indifferenza sembrano aver obnubilato la storia e la tragedia di quegli «anni di piombo» in cui rimasero travolte tante vittime innocenti.

C'è nel paese una sorta di rimozione collettiva: la gente vuole dimenticare, qualcuno anche ha interesse che la gente dimentichi e che tutto venga riassorbito nel magma del consueto e dell'ordinario. È invece doveroso uno sforzo per capire le innumerevoli cause e motivazioni che hanno consentito la nascita e la vita del fenomeno terroristico e che hanno spinto centinaia di giovani a compiere scelte di morte tali da annientare le loro stesse esistenze.

Per questo pubblichiamo, come stimolo per riflettere e per una futura discussione, questa «lettera aperta» che Mario Ferrandi e Marco Barbone hanno indirizzato ai giovani d.c.:

"Questo scritto vuole essere la proposta per un dialogo.

Abbiamo conosciuto parecchi giovani, nostri coetanei, con cui spontaneamente si è avviato un discorso di reciproca conoscenza. Ci stupivamo della diversità dei «percorsi» umani e politici; noi, ex-terroristi, e loro, voi che fate politica che vi impegnate nel mondo a partire da realtà culturali così diverse da quelle che ci avevano mosso.

Ma tutti, forse, con le stesse ansie, con la stessa volontà di «fare», di cambiare lo stato presente delle cose, gli stessi rapporti fra le persone; di rompere il circolo vizioso della «politica fatta solo per far carriera» (Guccini: «Dio è morto), con la voglia di «cambiare la vita prima che la vita cambi noi».

Cos'è successo fra questi «dati di partenza» e la realtà di oggi?Non ci dimentichiamo che voi siete il movimento giovanile del partito che ha subito le maggiori offese, irreparabili perché offese agli uomini, nel periodo degli «anni di piombo». Ma siete anche portatori di una cultura che ha nell'uomo il suo fondamento. Nell'uomo e nella sua possibilità di capire, cambiare ed emendare gli errori commessi; ed è per questo che ci rivolgiamo a voi, perché gli anni '70 vengano capiti e le lacerazioni in essi prodotte possano ricucirsi, si possa ristabilire la «comunicazione interrotta» che ora sembra solo lasciare una scia di dolore per le vittime e di reiezione sociale ed umana per i partecipi.

Ma cominciamo dall'inizio...

Si comincia nei collettivi, dopo la crisi dei gruppi extraparlamentari, a metà degli anni '70. Il collettivo era il centro di tutto; a volte vi confluivano anche presenze gruppettare, si discutevano le «lipee politiche», ma più che altro vi si raccoglieva un malessere generale, umano, metropolitano, per indirizzarlo verso la politica, l'attivismo. È chiaro che non eravamo marziani, ma persone normali, sensibili, che al vuoto della città disgregata, della città come luo o di potere espresso in termini di ricchezza, cercavamo «altre» risposte. Era insomma il vecchio discorso dell'impegno: si vedevano ingiustizie clamorose, la cultura dominante le introduceva in una mitologia dentro cui, rispettando certi passaggi, se neotteneva l'eliminazione e il trionfo della giustizia; aggiungi il bisognoesistenziale di avere voce in capitolo, di incidere nel vuoto della città... ed ecco che la politica diventa tutto.

Ed è subito violenza: il servizio d'ordine, retaggio del Movimento Stundentesco, diventa l'esperienza dominante, la familiarità quotidiana conspranghe e bottiglie molotov. All'inizio per proteggere i cortei, poi si sviluppa una logica interna, autonoma, fine a se stessa, l'organizzazione della violenza. Il mito della Resistenza è il più devastante di tutti: eravamo pochi, non eravamo «la» classe operaia, questo lo sapevamo benissimo.

Ma – ragionavamo – anche la Resistenza all'inizio era esigua minoranza. E tanto bastava a farci trovare la nostra «legittimazionestorica», tutti avevamo letto «Senza Tregua» di Giovanni Pesce.

Sotto sotto, c'era la volontà di non confrontarsi con quanto accadeva fuori da noi, di sopraffare ciò che era diverso; non si metteva in discussione questo o quell'aspetto della società, dell'organizzazione, ma tutto, tutto. Ogni cartello pubblicitario diventava una ferita. Oni marasma di gente che va allostadio la domenica, ogni telegiornale, ogni minuto trascorso sul posto di lavoro, ogni registratore di cassa, ogni uscita a fine turno da una fabbrica, ogni corsia di ospedale, ogni vecchio solo, ogni zaffata di gas, tutto si vedeva «contro».

Matura la convinzione che ci si realizza nella lotta: la lotta cambia i rapporti fra le persone, muta la vita tua e degli altri.

Poi cominciano a comparire le armi, le organizzazioni combattenti, ma non è stato un passaggio traumatico. Lo stesso «antifascismo militante» era già un passo dentro la lotta armata: nessuno, a sinistra, condannò l'omicidio Pedenovi (consigliere missino di Milano) e solo,perché era un «fascista»!

Da qui a trasformare il nostro ideale di vita e di battaglia in qualcosa che assomigliava molto alla Beirut del '75, il passo era breve. Arrivano le armi, i «kalashnikov», simbolo della lotta dei palestinesi.

In quel momento la rivoluzione mondiale diventava possibilità materiale, il sistema di potere un'impalcatura che non avrebbe retto al vento rivoluzionario...

Una lunga trafila di morte e di distruzione, la vita umana diventa «variabile politica»: l'immagine dello Stato come apparato monolitico, tentacolare, votatoall'annientamento delleforze rivoluzionarie ti porta ad assumere la concreta possibilità di uccidere. Unoslogan risuona nei tribunali: spariamo alla toga, alla divisa; alla funzione non all'uomo.

I militanti combattenti sono finitisconfitti per un'infinità di ragioni.Soprattutto però perché non hanno rappresentato in positivo niente.Solo una distruzione.

Riannodare le fila della contaminazione delle nostre coscienze comporta quindi per noi ex-terroristi una revisione critica che affondi le sue radici ben prima e ben oltre le imputazioni che ci vedono alla sbarra.

Comporta l'orrore per il sangue che abbiamo sparsoe il profondo rispetto per le famiglie delle nostre vittime. Ma anche di più, nella speranza che chi ha sofferto trovi la forza e la motivazione per superare il dolore, per il perdono senza rimozione.

Comporta l'urgenza politica e ideale di mettere a nudo i perché che la gente, il paese reale ci sta chiedendo. Desterà scandalo,oggi in pieni anni '80, interrogarci sulla relazione ideologica, di messaggio culturale e politico che può trovarsi fra il terrorismo degli anni '70 e il messaggio inferito dall'esposizione del cadavere oltraggiato di una Claretta Petacci ad un palo di un distributore 30 anni prima? Non ci può essere equiparazione fra lo statodi coscienza di chi assassinò Giovanni Gentile, conquello di chi partecipò al rapimentoe al martirio di Aldo Moro? O, per altri versi, se e dove relazione vi fu fra le trame di tutt'altro segno che pure hanno insanguinato il paese e la corsa allearmi di una quota di extraparlamentari di sinistra?

Dei misteri irrisolti del terrorismo, uno dei più inquietanti è la remora e la titubanza degli intellettuali italiani e della stessa classe politica a sottoporlo a critica, critica net senso che al termine dava S. Paolo: guardare dentro alle cose per vedere come sono fatte veramente."

La Democrazia dell'imprevisto
Mauro Fabris

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