Dall'altra parte della barricata
Ho trent'anni, appena qualcuno di più della vostra generazione di nuovi giovani dc. Ho gli stessi anni di molta, troppa gente che sta in galera per i fatti di terrorismo. Soprattutto, ho avuto giusto il tempo che è servito per respirare a pieni polmoni il piombo degli anni ‘70, da militante e dirigente che ha avuto la ventura si stare dall'altra parte della barricata, tra i democristiani.
La lettera di Barbone e Ferrandi, quindi, m'interpella, per molte ragioni, direttamente. L'averla pubblicata è già una risposta politica ad un gesto politico rilevante. Ma, perché non abbia anche oggi, anche fra noi, prevalenza la forza omologatrice e conformista di certo intellettualismo dominante, che già pretende di catalogare e chiudere nell'archivio del «pentitismo» e «perdonismo» (la voglia di rimozione di certa sinistra è tremenda), un desiderio che io giudico autentico, di confronto umano, prima che politico, dobbiamo tenere vivo questo filo.
Un filo che serva a darci elementi di conoscenza, se possibile di rispecchiamento comune nelle ragioni umane, e poi motivi di comprensione: abbiamo il dovere di capire.
E non solo perché è dal nostro essere cristiani che traiamo un effetto ed una sensibilità peculiare al nostro modo di essere in politica. Ma anche perché dobbiamo sapere come è potuto accadere quel che è accaduto. In questa ricerca, Mario e Marco, noi abbiamo ragioni comuni e discuterne serve.
Come dimenticare quegli anni cupi, in un liceo in «lotta contro la meritocrazia», dove addirittura la mia diversità politica (io democristiano) faceva da peso persino nei rapporti umani; le allucinanti assemblee: in votazione il diritto di parola per un «non comunista»; la grottesca teoria di scismi e nuove nascite per partenogenesi di gruppuscoli sempre più a sinistra (PC d'Iml, Circolo Lenin, UCI, che fine hanno fatto?); la violenza di una condotta arrogante e la violenza fisica: ricordo una giovane liberale, picchiato e gettato per le scale del liceo.
Ricordo i primi anni d'Università: i docenti, molti opportunisti, alcuni criminali, a soffiar benzina sul fuoco; le maggioranze, i fuori sede, quelli che studiavano sul serio: sempre sipenziosi; i patetismi di un'incontro con le masse operaie mai avvenuto: non serviva a salvare l'anima dei figli di papà scandire a squarciagola «operi - studenti, uniti nella lotta».
Certo, in quegli anni c'era confusione, ottundimento. Non si riusciva a scavare differenze: e la democrazia e la ragione stessa muoiono quando non sono capaci di differenze. I più si salvarono: i figli del papà che gioca a bridge col questore, fecero un viaggio intorno al mondo in attesa che sbollisse la temperatura; i furbi cambiarono casacca: da Mao a Berlinguer, a Craxi. Molti hanno fatto carriera; chi non trovò l'impego in banca o come funzionario di una cooperativa, chi non fu avvisato in tempo che la lotta era finita, continuò, come quel soldato giapponese, ad agirarsi nella foresta, fucile in pugno, a caccia di nemici. E forse non era in malafede. Tra questi ragazzi c'è gente come Ferrandi e Barbone. Ritornare dal niente, svegliarsi e ritrovarsi in galera: è tremendo! Come cristiano credo alla funzione retributiva della pena: è un fatto di rispetto della dignità umana; se considerassi il colpevole alla stregua del malato e la pena una misura sanitaria della società contro si esso, non rispetterei nell'uomo la sua capacità di determinarsi, di volere, e quindi di volere il male.
Per questo, perché rispetto Barbone e Ferrandi, comprendo quanto doloroso possa essere per loro questo risveglio: in noi c'è l'orrore per i delitti e la pietà umana per le vittime. In loro c'è rimorso, lancinante, inesauribile rimorso. A noi non è data facoltà di assolvere, ma Ferrandi e Barbone meritano il nostro rispetto. E il nostro rispetto può essere un segno: quello di una nuova stagione in cui trovi spazio finalmente il timbro della considerazione umana. E chiuda definitivamente, nell'unico modo possibile, i suoi conti con il passato.












