Il lungo cammino della riconciliazione
Quella tragica mattina del 16 marzo 1978, incalzato dalle insistenti domande dei giornalisti, il sostituto Procuratore della Repubblica di Roma dottor Infelisi disse: «Quello che è accaduto lo avete visto, le solite Brigate Rosse, il solito tutto».
Proprio il solito tutto. Un paese insanguinato, un manipolo di criminali che sembrava un esercito efficiente ed imprendibile, uno Stato impreparato ed impacciato.
IL tutto, il «solito tutto», era cominciato qualche anno prima quando, nella notte del 25 gennaio 1971, conun clamoroso incendio alla Pirelli di Lainate le allora sconosciute Brigate Rosse assurgevano agli onori della cronaca.
UN'Apparizione, però, che, aldilà delle cinque colonne dei gionali milanesi, passò inosservata ad una opinione pubblica scossa dalle stragi di marca fascista.
Ma il tempo giocava a loro favore e, purtroppo, non solo quello!
Cpsì il carnet dell'eversione di estrema sinistra si arrcchì, ben presto, di macabri trofei: il sequestro Sossi, l'assassinio del Procuratore Generale di Genova Coco, del giornalista della Stampa Casalegno, la campagna di «gambizzazione» dei «pennivendolidi regime».
E con il sangue arrivò la tanto ricercata attensione della gente, cominciò ad insinuearsi la paura, la sfiducia nelle istituzioni di uno Stato che solo in quel momento si rendeva conto della gravità della situazione.
Ma le Brigate Rosse, nella loro folle logica di morte, conscie del vantaggio che derivava loro dal fattore sorpresa non lasciarono tempo allo Stato per una adeguata controffensiva ed inanellarono dal sequestro dell'onorevole Moro all'omicidio del generale Calvanigi una serie impressionante di omicidi, stragi ed immensi dolori.
E venne il giorno in cui il mostro sembrò crollare sotto il peso della sue stesse barbarie.
Proprio mentre si andava «celebrando» la loro inarrivabile efficienza, proprio all'indimani dell'attacco più ambizioso e più agognato quello al presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, le Brigate Rosse conobbero i giorni della sconfitta.
Una sconfitta politica prima ancora che militare. Un isolamento completo da parte di tutti ma soprattutto da parte di quella base operaia le cui istanze, con tanta lucida follia, volevano rappresentare.
Oggi tutto ciò sembra lontano, assurdamente lontano. Si vuole dimenticare ciò che sembra non appartenerci più. Non èè così, non può essere così. C'è ancora bisogno di ricordare, per conoscere, per capire. Per capire come eravamo, perché siamo stati vittime di una simile aberrante barbarie.
Non possiamo cancellare con un colpo di spugna le esperienze di tanti giovani coinvolti, le innumerevoli vittime, le irrisarcibili ferite pubbliche e private.
Come non possiamo misconoscere che gran parte del merito della sconfitta politica e militare del terrorismo è dovuto al contributo di quanti, resisi conto dell'assurdità della lotta armata, hanno collaborato, attivamente, con l'Autorità Giudiziaria.
Ma ecco che, subito, nella nostra mente si insinua un senso di ripugnanza, di ipocrita moralismo.
Ed allora facile diventa l'accostamento del «pentito» con il traditore, il vigliacco o, peggio ancora, il nostro Cristianesimo da 3° Comandamento vola all'ebreo Giuda.
Così che gli innumerevoli pavidi degli «anni di piombo» diventano gli implacabili giustiziari, i severi censori di una legislazione che ha svenduto il tanto caro «Stato di diritto».
Ma chi sono, veramente, i pentiti? Cosa hanno rappresentato, al di là di facili propagande o di inumani ostracismi, nella lotta armata e nel suo stesso, inevitabile, annientamento?
Ho potuto conoscere alcuni di questi giovani,ho potuto, con loro, ripercorrere le vicende tragiche di quegli anni, le inconfessabili motivazioni, le ansie, la rabbia che li muoveva.
Ho potuto conoscere, al di là degli schieramenti ideologici, dei giovani con le nostre stesse paure, con le nostre stesse contraddizioni, con la nostra stessa irrefrenabile voglia di cambiare, di costruire quel tanto atteso mondo migliore.
Giovani, però, che prescindendo dall'uomo, forti della loro ideologia, hanno creduto di migliorare, distruggendo, seminando morte, dolore, disperazione.
Non erano una generazione, come tante volte semplicisticamente si afferma, ma portavano con loro un malessere generalizzato, l'estremizzazione di una cultura dilagante i cui «cattivi maestri», incontrastati e blanditi, sedevano sulle cattedre delle Unicersità di Stato.
Quanti errori, quante folli decisioni nella loro esperienza, ma quanta altrettanta e, forse, più grave indifferenza da parte delle istituzioni, della gente sempre preoccupata del proprio borghese «particulare».
In questa asettica apatia, in questa orribile logica di morte sono cresciuti questi giovani che, nonostante tutto, sulla loro pelle, sulla pelle di tanti innocenti assassinati, forse i più sensibili, i più attenti a conoscere, a capire, hanno maturato la scelta del pentimento, della negazione, cosciente e sofferta, della lotta armata.
Oggi cercano, solo, di riannodare le fila di un rapporto bruscamente e cruentemente interrotto.
Il rapporto con i parenti delle vittime, così duramente colpiti negli affetti, nei vincoli più stretti, con le istituzioni che volevano sovvertire, con la gente di cui volevano esponenziare le attese, i bisogni, quella stessa gente che non li aveva capiti, quella stessa gente che non avevano capito.
Un filo interrotto, una speranza infranta di cui, oggi, rimane solo il pianto delle vedove e degli orfani, dei padri e delle madri irrimediabilmente feriti, le innumerevoli domande inevase.
Ma i terroristi di ieri, le invincibili armate della sovversione, oggi chiedono perdono, chiedono di emendare i loro errori non già in eremi, come qualche purista vorrebbe, forse, per allontanare ogni possibile feticcio della nostra cattiva coscienza, bensì nella società, in quella stessa società così pesantemente offesa.
In questo sta la grandezza politica del fenomeno «pentitismo»; in questo voler guardare negli occhi quanti volevano distruggere; in questo riversare e convertire la rabbia di ieri in potenziale capacità di costruire, oggi, insieme un mondo migliore, sta la grande occasione storica che ci è dato di vivere.
E ancora non possiamo misconoscere il diverso atteggiamento di chi nel riconoscere i guasti del proprio folle agire, riconosce nello Stato democratico l'interlocutore naturale, da chi, invece, pur con lodevole intento, ricerca altri interlocutori (vedi la consegna delle armi al Cardinale Martini) che sembrano riecheggiare antichi e funesti agnosticismi (né con lo Stato né con le BR)!
Non si vuole, con siò, fare l'agiografia e del sociologismo a buon mercato, non si vuole dimenticare le nefandezze provocate.
Tutt'altro! L'intento che ci muove è la ricerca della verità, l'affermazione della Giustizia, se non altro quanto coloro che, ingenuamente o strumentalmente, si sono stracciati le vesti per un tale fenomeno, magari dopo aver portato il proprio contributo parlamentare al varo della legge sui pentiti.
Vogliamo tendere la mano a chi ce la chiede, ci legittima a ciò il dangue dei nostri martiri, la nostra cultura, la nostra fede, la nostra speranza che, al contrario di tanti nostri coetanei allora, è speranza nell'uomo, nella sua «originale» propensione al male e nella sua acquisista, in Cristo, capacità di redenzone.













