Dopo il 17 giugno

La Democrazia dell'imprevisto

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Dopo le elezioni europee appare chiaro che a nessuna forza politica è garantito un ruolo preciso: qualsiasi soluzione può uscire dalla libera scelta degli elettori. Per la DC questo deve costituire un nuovo stimolo a mobilitarsi.

Del voto del 17giugno e delle successive elezioni amministrative si conoscono già diverse analisi.

Conviene perciò tentare con alcune riflessioni di stimolare quel dibattito atto a delinerare lo scenario, i contenuti, le forze della nuova politica di cui il Paese ha bisogno e che è il fine ultimo di questa rivista.

L'Europa da fare

Coloro che credono nella bontà di questa Grande Idea che è l'Europa dei Popoli, attendevano dal voto del 17 giugno una spinta nuova, una ricerca di idee, di uomini, di volontà per vincere le resistenze, frutto degli egoismi nazionali, che ancora bloccano la realizzazione di una autentica Unione Europa.

Invece, da queste «elezioni senza passione» (senza passioni per l'Europa, si intende) niente o poco a tal fine si è realizzato.

Quando dal numero dei votanti si tratta di dedurre anche l'adesione, la passione dei popoli rispetto ai grandi ideali, come in questo caso, il voto è come un referendum, o pro o contro, e l'astensione assume un preciso significato negativo.

Le percentuali dei votanti nei singoli stati, sono così basse da inficiare persino il senso del voto. Emerge così chiaramente che vi è ancora un lungo cammino da compiere perché l'ideale Europeo trovi cittadinanza tra gli stessi Europei.

Ma questo lavoro non può essere assolto dai soli partiti e per di più nel breve tempo della campagna elettorale.

Una conoscenza europea, una capacità di pensare «in grande» i problemi che attanagliano gli Stati e le loro soluzioni, dalla disoccupazione, alla costruzione della Pace, dalla difesa ambientale alla sfida economica che sposta verso il Pacifico il baricentro se a questo lavoro si dedicheranno tutti coloro che in momenti diversi e con diverse responsabilità operano per la formazione della cultura e della identità dei popoli.

Basti pensare adesempio a quanta «cultura europea» si potrebbe introdurre nei nostri programmi scolastici.

L'indice di questa crisi si evidenzia poi dall'emergere in queste elezioni di gruppi fortemente nazionalisti e di gruppi, come i verdi tedeschi e gli ecologisti (fortemente critici verso la CEE.

Paradossalmente l'unico partito penalizzato dal voto del 17 giugno, è quello del P.P.E. che è costituito da quei partiti che ebbero l'intuizione dell'Europa. E che in modo compatto hanno sostenuto il progetto del nuovo Trattato per l'Unione Europea.

Se a ciò aggiungiamo infine che da più parti si è rilevato come il nuovo Parlamento non raccolga affatto quel numero di personalità particolarmente brillanti o carismatiche che servirebbero per dare uno slancio ideale alla "patria Europa", risulta allora evidente che queste elezioni possono risultare un fattore di indebolimento più che di rafforzamento dell'ideale europeista.

Ma forse è proprio da questa situazione difficile generata in modo particolare dalla maggior perdita di consenso delle forze che in ambito nazionale hanno la responsabilità del governo e dal conseguente emergere di forze marginali, che può venire il «colpo d'ala» atto a far riprendere quota all'Europa.

Le forze di governo, di qualsiasi tendenza, si sono indebolite perché hanno dovuto in questi anni far fronte alla grave crisi economica con l'adozione di misure drastiche che hanno provocato duri scontri con le parti sociali. Ecco allora che se finalmente i singoli Stati capiranno che non è possibile vincere la crisi economica che ha dimensioni sovranazionali, senon unendo leforze e se i popoli europei saranno educati a questa visione dei problemi, dalla crisi potrà nascere una nuova speranza per l'ideale europeo. Quella stessa speranza che animò De Gasperi, Schuman, Adenauer quando individuarono nell'Europa la dimensione ideale per vincere la battaglia della ricostruzione degli Stati Europei dopo le distruzioni della guerra, per garantire la Pace alle nuove generazioni, per costituire un riferimento di libertà ai popoli europei che proprio in quegli anni vennero rinchiusi oltre la cortina di ferro. Vale allora la pena di continuare a battersi oggi per quelle speranze, di battersi per l'unione degli Stati Europei.

La democrazia è compiuta

Dopo il voto italiano per la seconda elezione diretta del Parlamento Europeo, si può affermare ancor più di prima che un lungo processo di democratizzazione della società italiana e della quasi totalità delle forze politiche che essa esprime sia giunto a termine.

La democrazia è compiuta. Solo alcune sacche sulla destra e sulla sinistra dello schieramento politico, ma per loro libera scelta, si autoescludono dal libero gioco delle forze legittimate a governare il Paese, trovando in ciò la ragione del proprio esistere.

La democrazia è compiuta nel senso che ogni forza politica ormai raccoglie il proprio consenso unicamente in base alle proposte politiche, sulle quali riesce ad aggregare il consenso e non più in virtù di vecchi e storicamente superati steccati ideologici, religiosi, di censo. È nata da qualche tempo e sta irrobustendosi la «democrazia dell'imprevisto» che è la veritiera espressione sul versante politico di un Paese già da tempo in movimento in tutti i suoi settori: da quello economico, a quello culturale, a quello delle sue strutture sociali, ma bloccato, anzi soffocato nel suo bisogno di crescere, in quello delle sue istituzioni.

La «democrazia dell'imprevisto» per usare i termini proposti da A. Levi nel suo saggio «La DC nell'Italia che cambia» (Ed. Laterza, 1984) va intesa nel senso che nessun ruolo, per nes-

suna forza è prefissato o garantito. Ogni soluzione, ogni risultato può ora uscire dalla libera scelta degli elettori. Equesta è la vera democrazia. E perciò è compiuta. Queste affermazioni sono possibili perché il risultato politicamente più rilevante per l'Italia delle elezioni del 17 giugno, rimane lo «storico sorpasso» del PCI rispetto alla DC In sé il fatto non sarà generatore di mutamenti immediati nella vita politica del Paese.

Rimane però rilevante e storico perché segna il compimento di un processo evolutivo del sistema democratico del Paese.

Dopo 40anni dalla nascita della Repubblica la maggior forza politica fin dalle elezioni per la Costituente del '46 all'opposizione, tranne per il periodo della «solidarietà nazionale», diviene primo partito italiano. Succede ciò, cosa inimmaginabilesolo pochi anni fa, senza alcun trauma o sconvolgimento dell'assetto politico, economico-finanziario (la Borsa il giorno 18 ha reagito normalmente), sociale. Tutto questo, è evidente, perché il «sorpasso» è stato accompagnato dalla ripresa della dc dopo la «batosta» del giugno '83.

Abbiamo cioè la ripresa vigorosa di ciò che frettolosamente veniva dato per superato: il «bipolarismo»; due partiti, due grandi forze autenticamente popolari e nazionali attorno alle quali ruotano e ruoteranno, è immaginabile anche per il futuro, tutte le soluzioni per il governo delle realtà locali e centrali. Ma è un «bipolarismo» diverso dal passato quello che oggi si configura per il futuro. Uno scenario nuovo dunque. È importante allora capire ciò che sta accadendo e la linea d'azione che la dc intende perseguire in futuro ora che è stata vinta la «sindrome del M.R.P.», la paura cioè che sconfitta dopo sconfitta la dc fosse avviata ad un inarrestabile scomparsa sull'esempio della DC francese del secondo dopoguerra.

Il sorpasso

Molti ritengono che «il sorpasso» sia il frutto dell'effetto Berlinguer». La deduzione è condivisibile solo in parte. Sicuramente la «morte sul campo» di Enrico Berlinguer è servita a ricompattare quell'elettoratocomunista che era già in parte orientato a non recarsi alle urne. Ma la riconfermata forza del PCI testimonia che è intangibile il dato che circa 1/3 dell'elettorato ormai stabilmente vota PCI.

Semmai dalla morte del suo Segretario, e soprattutto dall'abile regia dei suoi funerali con qualche attore forse inconsapevole della risonanza dei propri gesti, il PCI. ha tratto ulteriore occasione per completare quel processo di «legittimazione» su un piano formale che negli scorsi decenni, per colpa della sua strategia politica anti-liberale e anticccidentale, gli erano stati negati. Con questo non intendo affermare che io ritenga quei processi definitivamente compiuti. Riconosco che nuovi passi sono stati compiuti e che l'immagine che il PCI è riuscito a crearsi presso la pubblica opinione è molto più rassicurante di alcuni anni fa, anche grazie ad un mutamento profondo intervenuto presso alcune realtà.

In questo senso l'«anticomunismo» di oggi è cosa diversa da quello di ieri. Esso non si fonda unicamente sul riconoscimento della inconciliabilità della visione comunista dell'uomo e del mondo, della storia, della morale con i valori a cui la maggior parte della società italiana, in primo luogo i cattolici, si ricollega. La duratura opposizione al PCI dei 2/3 dell'elettorato deriva anche se non soprattutto, dalla palese mancanza nel PCI di una cultura, di programmi, di una ipotesi seria di alleanza che rendano possibile una alternativa alla guida dello Stato.

La ferma nuova del «bipolarismo» mantiene questo legame con la storia politica recente. Il dato di novità che emerge è la caduta definitiva di qualsiasi «paura» o delegittimazione politica. L'anticomunismo di un tempo quindi non può rinascere e sulla «paura» del sorpasso, ora che in modo indolore ha consumato il suo effetto, non si può fare un futuro affidamento.

Le astensioni: nuovo elemento decisivo

Nel considerare il voto del 17 giugno, per le amministrative del 24 la lettura è più complessa, quasi tutti i commentatori hanno fatto riferimento al risultato raccolto dai singoli partiti espresso in percentuale sui voti validi. Ciò può indurre all'errore di ritenere che i partiti che sono aumentati lo abbiamo fatto guadagnando i voti degli altri partiti.

Guardando inoltre alle sole percentuali si può incorrere su un secondo errore, denunciato da A. Parisi direttore dell'Istituto Cattaneo di Bologna, e cioè quello di misurare li rendiconto elettorale del proprio partito considerato in sé, oppure sul rapporto tra questo e il risultato conseguito dai partit alleati e/o avversari.

Entrambi questi errori si possono evitare se non si dimentica il fenomeno dell'astensionismo, e se invece che alle percentuali si guarda all'andamento dei voti assoluti. Guardando i voti assoluti, possiamo affermare che le vittorie e le sconfitte del 17 giugno come ricorda il prof. Urbani (Corriere della Sera del 20/6) sono verosimilmente da addebitarsi all'andamento delle astensioni.

Il prof. Urbani dimostra che gli spostamenti, pure immaginabili, degli,elettori da un partito all'altro non sembrano essere né la sola componente dei mutamenti di forza néquella numericamente più rilevante.

li consenso reale, i vdti espressi dimostrano cioè come non ci siano tendenze irreversibili o costanti. Da ciò si può trarre la conclusione, dimostrata anche dalla diversità andamento nelle due votazioni di giugno,"the la variazione nel numero delle astensroni è il vero «ago della bilancia», e che ogni elezione sarà in futuro da considerar come un «caso a sè» in cui per condizioni elettorali che si possano determinare occorrerà ogni volta riconquistarsi una parte consistente dei propri voti. C'è insomma questa «doppia mobilità» degli elettori: l'indecisione di chi non sa se votare o astenersi; la tentazione di chi vorrebbe cambiare partito.

Elementi importanti di cui il primo è di gran lunga quello decisivo.

La DC continua a perdere consenso

Il prof. Parisi, per altri versi dimostra come guardando ai voti realmente raccolti la DC abbia visto ridursi continuamente, con regolarità i propri elettori.

Su ciò trova ragioni condivisibili per raffreddare quanti nel partito sono passati, nell'arco di 12 mesi, da uno scoramento senza speranza giunto a volte in sede periferica nella dichiarata importanza a ridare vigore all'iniziativa politica e trasformato ora in una Europa che risulta poco fondata.

In questo quadro appena tratteggiato spero risulti chiaro che il mancato successo del PSI e il calo PLI, PRI, PSDI, non deve essere considerato comeil segnale del venir meno definitivo del consenso verso queste forze.

In questa situazione di movimento un dato permane: la crescita del MSI e del PRI nonché la tenuta o la crescita contro ogni evidenza razionale delle formazioni localistiche (PSD'A e Liga Veneta).

Questi voti esprimon'o una forte protesta nei con!ronti del sistema e rischiano di indebolirlo ulteriormente con la dispersione della rappresentanza politica e la conseguente possibilità per chi ne ha la responsabilità di governare.

La riforma delle «regole del gioco» diviene iii' questo caso non l'espressione di volontà egemonica ma la condizione elementare per rendere il sistema rispondente alle domande della comunità.

ALCUNE CONCLUSIONI

La «instabilità» dello scenario politico italiano costituisce il dato nuovo e «stabile» con cui bisogna misurare la nostra iniziativa. La realtà politica italiana consisderata sino a pochi anni fa la più immobile dell'Occidente non è più tale.

I motivi di queste trasformazioni sono molti e sono stati più volte e in sedi diverse oggetto di approfondimento. Esse si basano tutte sulle profonde trasformazioni sociali del Paese, che ha fatto dell'Italia un Paese più moderno, ma anche un Paese più laicizzato, dove mano a mano che il Concilio diffondeva i suoi effetti, si realizzava il progressivo distacco della Chiesa dalla DC Un paese dove «l'abbuffata ideologica» degli anni '70, la caduta di molti «miti», l'aridità ideale se non l'immoralità della gestione del potere, il venir meno dell'opera di formazione delle coscienze da parte di tanti «maestri», hanno procurato una caduta verticale dei riferimenti ideali e delle distinzioni ideologiche.

Quello che è rimasto non è comunque il deserto, ma bensì una realtà diversa e nuova, ricca di energie positive, dove i richiami ad autentici valori alti e nobili, o religiosi non cadono nel nulla. Una realtà però esigente nei confronti dei partiti e che chiede ad essi risposte concrete ai problemi concreti.

Una realtà che al fondo esprime, come rileva il rapporto CENSIS sulla situazione Sociale del Paese nel 1983, domande di direzione di marcia, di «senso» di «significato», rispetto al «nuovo» che emerge, domande di nuovi traguardi da raggiungere e di una adeguata cultura per conseguirli.

Il problema della DC per riconquistare ogni volta il consenso è dunque il problema del contenuto, della proposta politica che i partiti fanno alla società che, ora più libera compie le sue scelte. Ma il nostro partito con questo suoapparato, con questa sua proposta politica, con questo metodo di selezione della classe dirigente, è in grado di rispondere a questa sfida? La risposta è negativa per quanto riguarda l'apparato. Va ribadito che esso è oggi assolutamente inefficiente ed inadatto a rispondere alla sfida del nuovo.

Noi aggraviamo la generale crisi della «forma-partito» con un apparato impolverato ed ammuffito fatto di un personale quasi totalmente amorfo rispetto a qualsiasi sollecitazione o richiesta. Gli «Uffici» di settore si reggono quando non esistono solo sulla carta, per accontentare qualche componente, sulla buona volontà e capacità dei responsabili. Ma il loro lavoro è riproposto poco e male all'esterno. Nel mentre già si parla del possibile rapporto tra lo svilupparsi della democrazia e l'informatica, le nuove tecnologie entrano in ogni ambiente, tranne che nelle nostre sedi.

L'elaborazione politica rispetto a problemi specifici, non rispetto alle formule politiche, appare spesso come il frutto di qualcheduno che ha «il pallino» per questo o quel tema più che la sintesi di una elaborazione politica complessiva del partito. Lo scarso coordinamento tra i gruppi parlamentari emerso a Milano alla Festa dell'Amicizia durante la presentazione delle due proposte di legge sulla riforma del servizio militare e sull'obiezione di coscienza, ne è un esempio lampante.

Potrei continuare parlando dell'assurdità dei «riti» che ancora ci imponiamo (il tesseramento, le tre assemblee all'anno ) e che assorbono gran parte dell'attività dei quadri periferici mentre manchiamo di presenza, di militanza politicamente preparata nei luoghi del vivere civile. Ma anche questo elenco è noto.

Con urgenza allora la classe dirigente deve porsi questi problemi concreti perché essi sono i motivi del non dialogo con l'elettorato e quindi del mancato recepimento delle nostre proposte.

Qualsiasi proposta politica per quanto buona non raccoglierà consenso se non si hanno i mezzi e gli uomini adatti per diffonderla. Affidarsi ad agenzie specializzate per gestire la campagna elettorale non serve. Una immagine si crea con una capacità costante di presenza, mobilitazione e formazione dei quadri, di dialogo con la gente.

L'attuale licenza del partito è condivisibile soprattutto per lo sforzo del Segretario di creare un partito moderno, intellettuale che sa guardare al nuovo.

Ma questo sforzo sarebbe ancor più condivisibile se fosse fatto da tutti e coinvolgendo tutti e quindi esprimesse l'elaborazione reale e complessiva del partito. Non chiedo soluzioni unanimistiche che risultano sempre paralizzanti. Avverto che spesso c'è l'impressione che la linea politica sia diversa, pur dovendo esprimere quella emersa dal Congresso, a seconda di chi se ne fa portavoce.

Sarebbe ancor più condivisibile se essa non si limitasse a rivendicare per la DC solo di essere «l'elemento di moderazione» della coalizione di governo, ma dimostrasse di far pesare e di saper dare più vigore alla nostra presenza maggioritaria nell'Esecutivo.

Sarebbe ancor più condivisibile se la DC dimostrasse di voler elaborare un progetto di società ispirato alla concezione cristiana dell'uomo e della vita a cui ricondurre costantemente la sua iniziativa politica, dimostrando di voler fare della «questione morale» non lo strumento per regolare le vicende interne, ma il momento più limpido e deciso della sua azione.

Sarebbe infine ancor più condivisibile se dal centro alla periferia la selezione della classe dirigente avvenisse in base ai criteri della capacità, della competenza, della integrità morale e non per cooptazione secondo i criteri della fedeltà al gruppo o l'appartenenza alle categorie.

Appaltare le liste ai gruppi ed alle categorie, va sottolineato per le prossime amministrative, affidando ad essi la designazione dei candidati, accresce e rende permanente la conflittualità interna, ratifica la «politica del bricolage» annulla e svilisce il senso dello «stare insieme» riducendo il partito ad un comitato elettorale.

Anche queste sono cose già dette. Ripeterle serve solo per ricordare che non sono le analisi e le idee che mancano, ma la volontà politica.

Volontà che può essere fatta pesare in rapporto alle nostre diverse responsabilità.

 

 

Variazioni in punti rispetto alle elezioni politiche 1983, per regioni

Regioni

Dc

Pci

Psi

Piemonte

+ 1,8

+3,1

-0,2

Aosta

+1,3

+6,7

-1,7

Liguria

+0,2

+3,0

+1,9

Lombardia

+ 1,7

+1,6

+ 1,4

Trentino A.A.

+1,4

+0,6

+0,1

Veneto

+2,3

+2,1

+0,1

Friuli V.G.

+2,1

+2,7

+0,2

Emilia R.

+0,3

+ 1,9

+0,3

Toscana

+0,l

+2,9

+0,5

Umbria

-0,3

+2,9

-0,4

Marche

+0,6

+2,4

+0,1

Lazio

Abruzzo

+0,1

-0,7

+5,1

+2,9

-0,1

Molise

-6,1

+3,4

-0,2

Campania

-0,9

+4,9

-1,5

Puglia

-0,2

+5,1

-3,2

Basilicata

-4,8

+2,8

+1,0

Calabria

-2,6

+5,4

-2,5

Sicilia

-4,2

+5,3

-1,4

Sardegna

-0,5

+3,6

-2,0

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Gaetano Pacienza

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