Intervista

Padre Sorge: Sulla droga non solo una fase difensiva

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Il problema droga, per il padre gesuita responsabile del Centro Arrupe di Palermo, non va affrontato solo a colpi di campagne stampa occasionali. Il ruolo della politica.

Seicentotrentasei morti per droga al 10 novembre 1988: questi gli ultimi dati agghiaccianti. A queste morti facevano riferimento i cartelli dei tanti giovani (30 mila?) che nei giorni scorsi hanno accerchiato Montecitorio chiedèndo attenzione, pietà e solidarietà per le vittime e severità, lotta senza quartiere, nei confronti di trafficanti e spacciatori. Polemiche di tutti i tipi, dibattiti, pronunciamenti politici, iniziative legislative, segnano una grande ripresa di interesse per un tema che non ha bisogno di risse o di fughe in avanti, ma che deve essere affrontato subito, con chiarezza e con energia sul versante più pertinente.

Del resto come non ricordare, e lo ha riconfermato Sica nei giorni scorsi alla Commissione Antimafia, che il dominio del territorio, «una realtà inconfutabile», da parte del potere mafioso si esercita soprattutto, pur non sottovalutando altre «risorse» criminali, in virtù del traffico degli stupefacenti?

Ne parliamo con Padre Sorge, che negli ultimi tempi è intervenuto più volte sull'argomento.

Lo troviamo a Palermo, nelle palazzine, circondate dal verde, del Centro Arrupe: un isolotto nella sovraffollata e caotica espansione palermitana, frutto del disordine urbanistico degli anni '60.

Un'isola, quella dei Gesuiti, che però ha continui riferimenti al contesto esterno, in particolare quello urbano.

«La scuola» mi dice Padre Sorge, «è stato un segnale di tipo creativo, ed è di grande valore, un segno dei tempi, che da Palermo sia partito un modelllo per le altre cento scuole che, dopo Palermo, sono sorte un po' dappertutto in Italia».

«Una risposta non soltanto difensiva, ma propositiva, aggiunge Padre Sorge, per affrontare problemi nuovi».

E facendo riferimento alle polemiche di agosto sul ruolo dei Gesuiti di Palermo, Padre Sorge sottolinea che nell'intervento del Cardinale Pappalardo, in quello del Provinciale P. Lombardi e anche nel suo, all'inaugurazione dei corsi di quest'anno, si è ribadita che «la finalità del corso è formare gli uomini, formare le coscienze, formare le intelligenze, ma non fare politica, non diventare collaterali quindi all'uno o all'altro partito, all'uno o all'altro gruppo di responsabili o di potere, ma essere dunque questa coscienza critica e questa cqscenza propositiva di idee di studio a livello serio di ricerca.

Nessuna strategia di conquista

L'aver chiarito nuovamente tutti questi aspetti, era necessario, da una parte per dare la fisionomia vera che noi abbiamo e, ripeterla in un momento come questo, in cui poteva essere messa in discussione, dall'altra per rispondere anche alle strumentalizzazioni che ci sono state da parte di alcuni elementi politici, che hanno voluto vedere in noi soltanto la politica dei gesuiti oppure addirittura un piano di conquista del potere o di orientamento del potere politico in Italia, cosa che in modo autorevole, anche perché era presente il superiore, è stata negata ribadendo la specificità del nostro servizio ecclesiale».

Il discorso inizia perciò sui temi dell'Istituto Arrupe e poi continua con accenni alle polemiche sulla «via nuova emersa a Palermo con la Giunta Orlando».

Formule e messaggi

Padre Sorge dice: «Quando si risponde a queste polemiche che ci sono state, la chiave sta nella distinzione tra quella che è la formulazione della giunta, quindi gli uomini che la compongono, movimenti e partiti che le danno vita, dal messaggio politico che c'è. lo ho sempre detto che noi non ci siamo mai legati alle formule; ritengo che questa combinazione sia non esportabile fuori, perché solo a Palermo abbiamo una situazione così drammatica come quella che conosciamo.

Gli chiediamo: «Vuole dire dunque che il futuro della democrazia sta anche in giunte come questa e in un diverso modo di far politica, cioè nell'impegno sulle cose da fare, nell'intendere la politica come servizio autentico per la collettività? Va intesa in questo senso la vostra partecipazione al dibattito in corso?» e ci risponde: «Sì, invece quello che forse ha preoccupato di più i politici di più lunga vista è il messaggio politico che tutto ciò sottende e che da Palermo emana e che chiaramente interessa tutto il paese, superando quindi il caso Palermo, e cioè che è possibile realizzare un nuovo modo di fare politica, una politica quindi che non è soprattutto ed esclusivamente divisione del potere tra i principali protagonisti delle elezioni, ma è soprattutto servizio, quindi prevalenza della logica di programma sulla logica dello schieramento o dell'appartenenza o della divisione del potere. Questo fa un po' paura perché chi ha un'ottica vecchia di una politica vista come un consenso ottenuto che poi va ripartito in termini di potere tra i vincitori».

A proposito della droga

Questo proporsi strategie complessive verso obiettivi di democrazia matura hanno certamente suscitato polemiche, ma Padre Sorge anche se si mostra disponibile ai chiarimenti non rinuncia, come si è visto, a «prendere posizione», a «schierarsi», cercando di riaffermare in modo puntuale il senso delle sue posizioni.

Così fa anche sulla questione droga: «Non ha senso – dice – che sia illecito lo smercio della droga e considerarne lecito il possesso sia pur in modica quantità; non ha senso combattere (e giustamente punire con molta severità) gli spacciatori ed i trafficanti di droga per poi lasciare nella legalità il consumo. Sono due facce della stessa medaglia: l'una rifornisce il mercato, l'altra lo favorisce. Non vedo, invece, come si possa arrivare a punire il drogato, anzi credo che questo sarebbe un grave errore».

«Bisogna distinguere – aggiunge –: una cosa è il mercato criminale della droga, un'altra è il flagello sociale della droga. Parlavo poc'anzi di quei giovani: ebbene, chi è uscito dalla droga, oppure combatte per disintossicarsi, ha acquistato piena coscienza dell'illiceità del drogarsi; ma come si fa a condannare come delinquenti quei ragazzi prostrati che arrivano lì in cerca di aiuto? Non si può paragonare il consumo di droga a nessun altro delitto, perché il delitto presuppone sempre la volontà e la libertà di compierlo. Chi si droga forse ha la volontà immatura e fragile dell'atto iniziale, ma spesso finisce – schiacciato dalla tossicodipendenza – per non essere più libero, semmai è un malato, debole psicologicamente. Lo stato non può certo disinteressarsene, ma la soluzione non è nella punizione, ma nella redenzione. Deve semmai corrispondere un obbligo morale all'azione di recupero. Definire illecito il consumo di droga è la premessa indispensabile per formare una cultura, una coscienza, una responsabilità sociale. Al di là di questo c'è la coercizione. No, non avrebbe alcun senso accanirsi poi nella punizione, e non mi riferisco soltanto alle ipotesi di tipo detentivo. Si tratta, invece, di recuperare, rieducare, riabilitare. Ai giovani educati alla illiceità degli stupefacenti va lasciata, a mio modo di vedere, un'alternativa libera di recupero, resa credibile da una legge che favorisca la possibilità di movimento verso quella che io chiamo redenzione».

Quattro no alla legalizzazione

Un'ultima domanda, alla luce delle cose dette. Parliamo dell'ipotesi, sostenuta da alcuni, di «legalizzazione».

E P. Sorge risponde: «Sono decisamente contrario. Sono sostanzialmente quattro le ragioni più importanti: la prima è che la droga produce morte, morte come cultura e morte come realtà. I morti di droga nei primi nove mesi dell'anno, come è emerso dalle ultime cifre, sono stati quasi seicento, più del totale di tutti i dodici mesi dello scorso anno. Quindi, la droga produce morte; il fatto che la venda uno spacciatore o che si possa comprare in farmacia, non cambia questa logica di morte. La droga uccide perché assuefà l'organismo, lo stimola, lo rende famelico di ulteriore uso di droga fino alla morte, quindi lo stato non potrebbe mai permettere la liberalizzazione di una mentalità, di una cultura di morte. La seconda ragione è il fatto che la legalizzazione di per sé produce cultura, quindi se una legge consente determinati atti, determinate scelte, nella mentalità, nel costume di una nazione la legalizzazione produce l'abitudine di seguire quello che la legge consente. Quindi è un'illusione dire legalizziamo, così si arresta la corsa alla droga perché questo servirebbe a diffondere il costume. Il fatto che qualsiasi ragazzo potrebbe andare in farmacia a comprarla legalmente, a costo modico, non frena, ma spezzerebbe la catena della reazione internazionale. Una volta che l'Italia dicesse, noi legalizziamo la droga e la possiamo vendere liberalmente senza penalità, ci sarebbe la corsa di tutti i mercanti di morte a venire a vendere in Italia, quindi diventerebbe appunto l'anello rotto, fragile della catena della resistenza internazionale. Pannella mi ha risposto, in televisione, quando ho detto questo, che non ha mai pensato che la legalizzazione possa awenire soltanto in un paese, dovrebbe awenire in tutto il mondo, la qualcosa diventa completamente utopica ed oltretutto non risolverebbe il problema. Poi, la quarta ragione che dicevo è questa: siccome ci sono dei giovani, soprattutto questi che s'impegnano seriamente nelle comunità terapeutiche, che dimostrano che con una formazione, con il lavoro, con la tensione morale si può vincere; liberalizzare la droga, dicevo sarebbe appunto dare una pugnalata alla schiena a questi ragazzi invece di aiutarli a reinserirsi negli ideali, in una vita sociale normale, in una tensione anche morale dell'esistenza e del lavoro».

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