Intervista

Droga, oltre le passerelle

Intervista a Don Luigi Ciotti
Nuova Politica - Droga, oltre le passerelle pagina 56
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«Non dico che non servano anche le tavole rotonde, le conferenze televisive, ma queste hanno un valore solo se c'è un prima, un durante e un dopo».

Siamo a colloquio con Don Luigi Ciotti, fondatore ed animatore del Gruppo «Abele» di Torino, una delle associazioni che maggiormente si interessano del recupero di persone da ogni forma di dipendenza; innanzitutto gli chiediamo:

 

Don Ciotti, quale può essere il ruolo della Chiesa e del cristiano di fronte al problema delle emarginazioni ed a quello, drammatico, della droga?

La Fede non è solo Verità da credere, ma anche da vivere. Oggi più che mai è necessario incarnare la parola di Dio.

Per un Cristiano è fondamentale avere come riferimento il Vangelo nel quale troviamo le «provocazioni» di Cristo, un monito esemplare a non ripiegarci su noi stessi, ma a guardarci intorno, ad essere, come Lui ci ha insegnato, capaci prima di fare, poi di predicare. Essere, quindi, Chiesa oggi di fronte alle fatiche, ai problemi della gente vuol dire innanzitutto riuscire a saldare la dimensione verticale della riflessione del silenzio, della preghiera, dell'ascolto della parola di Dio con la dimensione orizzontale che vuol dire impegno per la promozione umana; impegno e servizio completo nelle diverse dimensioni della realtà sociale e civile.

In questo senso la Chiesa deve essere stimolo agli altri in coerenza con le provocazioni e le scelte che Cristo ci ha indicato.

 

Non le sembra che la questione droga, come altri importanti nel nostro Paese e forse non solo in Italia, sia stato oggetto di una falsa tematizzazione, nel senso che non sia stata mai posta al centro del dibattito politico e dell'attenzione generale?

Purtroppo lo è. La questione droga è diventata oggetto di passerelle, di grandi discorsi, di manifestazioni di tutti i generi. Non dico che non servano anche le tavole rotonde, le conferenze televisive, ma queste hanno un valore solo se c'è un prima, un durante e un dopo e soprattutto se riescono ad incidere concretamente nelle diverse fasce delle realtà che trattano, inducendo ciascuno di noi ad assumere le proprie responsabilità ai diversi livelli: nel sindacato, nella politica, nella Chiesa, nella Scuola. Siamo tutti stanchi, oggi, di parole. Abbiamo bisogno di concretezza, di fatti. Dico di più: abbiamo bisogno di speranza. La gente disperata che si dibatte nella droga, anzi, nelle droghe, le persone che sono coinvolte e disorientate, oggi, più che mai, hanno bisogno di trovare segnali di concretezza e di speranza. Chi vive la spirale delle droghe ha un disperato bisogno di trovare almeno un segnale che gli indichi la possibilità di un percorso diverso da quello su cui si è incamminato.

 

Qual è la sua opinione sul problema della «modica quantità»?

Faccio fatica in questo momento a dare una risposta di questo tipo perché per me e per il gruppo, questo, come tutto il nostro lavoro, è oggetto di una notevole riflessione. Ho comunque paura delle scorciatoie che qualcuno nel nostro Paese ha indicato rispetto ad un nodo fondamentale, come quello della «modica quantità» che da anni ci trasciniamo. Resta tuttora confuso ed incerto chi sia abilitato a stabilire e con quali confini. Una cosa è certa ed è l'aspetto centrale della questione: che è giusto affermare con forza «no alla cultura della droga»; è giusto anche affermare la tutela dei diritti che presiedono alla salute del cittadino; è giusto ancora affermare che non è lecita la mediazione con qualunque tipo di sostanza dannosa per l'integrità fisica e psichica delle persone. Tutto questo è di fondamentale importanza. Bisogna però aggiungere che è anche necessaria chiarezza e coerenza da parte di chi legifera, stando attenti a dire no a tutte le forme di dipendenza. È inutile colpire in una certa direzione e permettere poi altre forme, più facili, di dipendenza come quella da farmaci, da alcool e via di seguito. Con questo non voglio dire che bisogna penalizzare indiscriminatamente, ma dico solo che c'è bisogno di un progetto complessivo che abbia più fede nella «educazione a far salute», nella corretta informazione.

 

Cosa pensa della penalizzazione per i consumatori?

In sostanza, un art. 80 che di fatto mira a penalizzare, non so poi in che maniera, i consumatori di stupefacenti, a sottolineare la illeicità del consumo, a me sembra ancora una volta una scorciatoia che non intacca minimamente la vera natura del problema. In cosa consisterebbe, poi, questa pena? Non è il carcere come è stato detto, ma una sazione pecuniaria del problema. E chi non paga? Chi non ha la possibilità di pagare? Sarebbe assurdo pensare di poter mandare in comunità anche i consumatori saltuari di stupefacenti: sarebbero necessarie migliaia di comunità.

Un'altra difficoltà sta nel definire esattamente il confine tra pena e terapia, altro grande nodo su cui sono sconsigliabili altre scorciatoie se si vuole evitare il rischio del fallimento totale. Perciò mi sembra inutile fossilizzarci sulla questione della pena e sull'art. 80 che colpisce in un certo modo ma poi torna indietro. Qualcuno propone: assolviamo due volte, poi la terza diamo la condizionale ed anche la quarta, poi condanniamo. Alla fine finiremmo per far pagare soltanto quei poveri Cristi che vengono più volte fermati perché sono quelli che appaiono di più sulle strade. I soggetti più fragili, più deboli. Chi sarà tutelato in questo modo saranno quelli più forti, anche se fragili per altri problemi, che vivono nel sommerso, che «si fanno» in casa propria. Non so, io non so onestamente indicare quale può essere il modo per dire no alla droga, alla cultura della droga. Ricette pronte non ne esistono, ma non credo comunque che una pena possa aiutare a risolvere il problema. La soluzione può avvicinarsi solo nella misura in cui ci sarà impegno concreto ed attenzione reale a tutti i livelli di responsabilità.

 

In cosa dovrebbe principalmente consistere questo impegno?

Il primo più importante obiettivo da raggiungere è quello di far crescere nella gente la cultura del rifiuto della droga e di tutte le forme di dipendenza, perché la gente, soprattutto i giovani, trovino motivi, trovino interessi, riscoprano e diano un senso ed un significato alle cose che fanno, perché venga meno il bisogno di droga. Dov'è il grande lavoro di prevenzione, la lotta alla disoccupazione, la corretta informazione, l'offerta di spazi perché ognuno possa esprimere le proprie risorse e potenzialità, per favorire le relazioni tra le persone e la comunicazione? Che lavoro facciamo nella scuola perché ci sia «un valido progetto a far sa- 1ute» educazione sanitaria? Il grande investimento andrebbe fatto proprio per realizzare le condizioni reali che vedano finalmente i giovani protagonisti, soggetti di storia nel loro contesto, perché venga sempre meno il bisogno di trovare scorciatoie e forme di mediazione.

 

Il nuovo Ministero per gli Affari Sociali è sorto anche per rispondere a queste esigenze, qual è il suo giudizio?

È senz'altro un fatto positivo che il Ministero per gli Affari Sociali abbia una sezione per il mondo giovanile, attenta alle problematiche che interessano questo importante segmento della società: il mondo giovanile.

Mi sembra anche che il Ministro lervolino si stia muovendo bene, che abbia scosso un po' le acque rispetto ad alcuni problemi che erano da tempo nel cassetto. Però, attenzione, è anche necessario che ci sia un coinvolgimento della base della gente, delle realtà che non sono solo quelle che transitano per Roma, che vivono a Roma. Bisogna tener conto di tutte quelle che sono sparse sul territorio nazionale che hanno il diritto di essere ascoltate ed incontrate e non soltanto in visite ufficiali o in particolari occasioni, pure doverose ed importanti. Ciò al fine di coinvolgere tutte le realtà ad esprimere un loro contributo. Un importante integrazione, quindi, di quella che è l'esperienza di anni di impegno e di lavoro di gruppi giovanili con le Istituzioni dello Stato, senza lasciarsi condizionare da pregiudizi, da etichette o da marchi. Il mondo giovanile ha un grande patrimonio che si esprime nell'associazionismo: nelle associazioni cattoliche, laiche, nelle associazioni sportive.

L'associazionismo giovanile gioca oggi un ruolo determinante in alcune questioni di fondo, ma potrebbe essere ancora più importante se tendesse al recupero del sommerso, di quella vasta fetta di giovani che non appare, che ha meno strumenti di accesso e che nessuno rappresenta. Bisogna essere capaci di aprirsi, di interrogarsi, di chiedersi come mai all'interno della loro città, al di là di queste associazioni una grossa fetta è tagliata fuori. C'è tutto un mondo giovanile che sfugge. Questo vale per tutti, per l'Azione Cattolica come per la Fgci, per il Movimento Giovanile democristiano, per le associazioni sportive come per gli altri tipi di gruppi.

 

In una recente intervista lei ha sostenuto la necessità di un intervento congiunto, straordinario, dei dicasteri interessati sulla falsariga di quanto già fatto per la questione Mafia. Cosa intendeva dire esattamente?

È chiaro che si tratta di una provocazione. Perché, dico, se I' Amministrazione di Torino non essendo riuscita a realizzare certi tipi di servizi previsti continua a «stagnare» al suo interno di fronte a sei ragazzi morti in pochissime ore, non mi sembra assurdo chiedere agli uomini di Governo, che pur concentrarono a suo tempo forze, energie e mezzi per contrastare il terrorismo in una città emblematica come Torino, perché non si può far altrettanto oggi con la Droga? Da Torino partì allora un segnale di vera lotta, di vero impegno ed anche di serietà della gente, che ottenne risultati concreti. Di fronte a questa grossa lotta di mercato, questo grande traffico, le grandi cOperture di un potere economico criminale esteso, mi è sembrato corretto chiedere a chi ha la grande responsabilità di Governo nel nostro Paese, di rilanciare, in una città come Torino, ancora una volta emblematica, una strategia concreta che parte da Torino per guardare al resto del Paese come fu fatto allora per il terrorismo. La gente deve pensare che il problema della droga è proprio non solo del Sud dell'Italia, della Mafia e della Camorra di Palermo e Napoli; esso esiste anche al Nord con notevoli coperture.

 

E sul piano internazionale?

Sì, la lotta alla droga è fatta anche di strategie internazionali, ma soprattutto di volontà politiche a livello internazionale, con un grosso coordinamento di forze nazionali ed internazionali che, di fatto, al di là delle enunciazioni, oggi ancora non esiste.

 

Eppure qualcosa è stato fatto. L'accordo di Torino...

Sulla carta facciamo molti accordi, nella realtà continuiamo a lasciarsi alle spalle centinaia di ragazzi morti. Il problema è che la Droga rappresenta un business enorme di migliaia di miliardi che ingrossano le tasche di qualcuno. Una potenza economica criminale che sicuramente ha delle connessioni con dei segmenti politici nazionali ed internazionali. Non è possibile concludere un affare di trentamila miliardi l'anno senza grosse coperture e manoyre di vario genere. Perciò è ancora più necessaria una scelta di strategie immediate, di impegno di uomini, di mezzi, di normative, di interventi. La proposta qual è? Intanto sul traffico ed i trafficanti inasprire le pene, estendere la legge La Torre, la Istituzione di un coordinamento nazionale e internazionale dando però agli uomini mezzi necessari per raggiungere questo obiettivo. Non vorremmo, in definitiva, che la nuova legge sulle tossicodipendenze, di cui tanto si parla, creasse ancora una volta soltanto fumo, come la 685 nel 1975. Non vorremo che coloro che operano nel settore pubblico ed in quello del volontariato, che quotidianamente combattono la loro battaglia contro la droga, si ritrovino ancora una volta soli.

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Maurizio Ravidà

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