Droga: che fare?
L'incremento inquientante del fenomeno droga registratosi in questi ultimi anni colloca ormai il problema al centro dell'attenzione e delle apprensionidell'opinione pubblica:quella che, fino a qualche anno fa, era comunemente ritenuta una pratica deteriore di singoli individui che, solo indirettamente, poteva nuocere al tessuto sociale circostante, è oggi considerata una minaccia per l'equilibrio dell'intera collettività. La sensibilità alla lotta contro la droga è dunque molto più difTusa, anche in chi non è stato direttamente coinvolto nel fenomeno. II tossicodipendente è ormai in mezzo a noi, a scuola, nell'Università, nella casa accanto, nei locali pubblici. Soprattutto fra i giovani, la droga, trova il suo campo d'azione, agevolata da travagli sociali, crisi di valori, disorientamento morale. La vittima, una volta catturata, cade in uno stato di soggezione verso la sostanza stupefacente, che diviene il nuovo mito, il valore assoluto. E per non perderlo, tutto diventa lecito, anche il delitto. Di qui l'enorme incremento della piccola delinquenza comune e la conseguente insicurezza sociale che domina soprattutto le grandi fasce metropolitane. La dipendenza psicofisica diviene tale da porre in secondo piano i rischi che ne derivano, dall'annullamento della personalità all'emarginazione, dalla disperazione alla morte.
Dello studio di proposte e strategie concrete, volte a sconfiggere questo fenomeno di volontaria autodistruzione, si occupa la trasmissione del TG1 «Droga, che fare?», che ha fra i suoi conduttori Piero Badaloni, giovane cronista televisivo, che in più occasioni si è dedicato allo studio del problema. È con lui che cercheremo, con un'intervista-conversazione, di fornire un nostro apporto ad una soluzione.
Nel corso delle vostre inchieste avete raccolto numerose testimonianze che consentono di ricostruire altrettante storie di tossicodipendenza. È possibile, da queste diverse esperienze, trarre un fattore causale comune ovvero elementi costantemente riscontrabili nelle personalità e nelle situazioni dei giovani che si avvicinano alla droga?
Secondo i dati del CENSIS esiste un «filo rosso» comune a tutte le storie di tossicodipendenza: il disagio giovanile, che nasce dalla mancanza di dialogo fra la società degli adulti e il mondo dei giovani. Giovanie adulti non si parlano più e ciò provoca un certo malessere nei giovani. Essi non hanno più valori saldi cui riferirsi, poiché la società degli adulti non ha più i suoi valori, avendo inseguito i miti del benessere materiale, condizionata in questo dai mezzi di comunicazione di massa, che hanno creato i miti del facile successo, del facile benessere.
Dietro quest'analisi, vi sono le storie dei singoli tossicodipendenti. In ciascuna una vicenda diversa. Ogni giovane tossicodipendente cerca nella droga una soluzione ai suoi problemi: il dialogo che manca con la famiglia, la sensazione di debolezza all'interno di un gruppo, che induce spesso all'obbligo coatto di fare uso di braga leggera. Quest'ultimo punto è molto importante: dalle varie storie di tossicodipendenza risulta che generalmente lo spinello è l'anticamera dell'eroina. Il 70% di coloro che ci hanno raccontato la propria esperienza, ammette di aver cominciato con lo spinello. L'elemento comune consiste soprattutto in una realtà oggettiva: la droga è ormai un bene di consumo e come tale è vissuta dai giovani, solo che rispetto agli altri beni di consumo e molto più pericolosa, perché non ti lascia più. Questo anche perché la rete di spaccio è ormai molto diffusa: trovare un pacchetto di eroina non richiede neppure un'ora e mezzo. Non c'è solo la mafia o la camorra a gestire lo spaccio: esse si appoggiano anche ad una rete di gente che non appartiene alla malavita, persone che svolgono normali attività (liberi professionisti, commercianti, sottoproletariato) e che arrotondano con la vendita dell'eroina.
Fra le tante soluzioni che si propongono per prevenire l'approccio dei giovani alla droga e, nel contempo, per recuperare coloro che già ne fanno uso, quale potrebbe essere la ricetta giusta?
Non c'è una risposta unica, bensì più tentativi di risposta. E non in un clima di protagonismo, che è il più grosso rischio.
È importante arrivare alle vere fonti dello spaccio, ma occorre combattere anche sul fronte della domanda: allo spacciatore nuoce molto di più un'assistenza che funziona rispetto ad un inasprimento delle pene per chi smercia la droga. L'assistenza e la prevenzione devono tuttavia essere corrette: illudersi che ci sia bisogno solo di un'informazione sanitaria è illusorio. Il problema è soprattutto sociale. culturale formativo. Ognuno deve riscoprire il proprio ruolo, riappropriarsene. dalle famiglie agli insegnanti. dai giornalisti ai politici.
Si devono individuare i fattori di rischio che differiscono di zona in zona. E occorre rendersi conto che la campagna d'informazione a tappeto nelle scuole è un errore. che può produrre conseguenze aberranti. Alla base di questo c'è il solito errore di fondo che consiste nella concezione della droga come un problema sanitario. Può esserlo, in minima. parte. nel corso della disintossicazione. ma solo in questa fase. E andando avanti sulla linea del problema sanitario, si offre spazio agli speculutori. a gente che offre l'erba magica (e ce sono tanti). speculando sulla disperazione della gente: ci sono comunità pseudoterapeutiche che chiedono un milione e ottocentomila lire ai genitori per tenere i figli: ci sono medici che premono per loro terapie che non hanno nulla di serio e che al massimo aiutano solo la disintossicazione; ci sono altresì titoli di giornale in cui si legge che con quattro ore di sauna si esce dalla droga.
Questi sono fenomeni molto pericolosi, galvanizzati dalla concezione del problema. se ondo un"ottica sanitaria.
Ma la crisi d'astinenza, per esempio, non è anche un problema fisiologico e, quindi, d'assistenza sanitaria?
Certo. c'è anche un aspetto medico, ma consideriamo che la crisi d'astinenza è un problema ingigantito da chi vuole specularci sopra e dagli stessi tossicodipendenti. per evitare di supeare una proYa terribile, che dura al massimo 60-70 ore e che deve essere superata con l'assistenza dei familiari o di p rsone legate affettivamente al tossicodipendente.
Come gestire poi la situazione successiva alla disintossicazione?
Occorre creare una rete di valori che si ergano come una barriera contro il pericolo ancora costituito dagli spacciatori.
Una buona parte dei detenuti per reati minori è costituita da tossicodipendenti. Si parla di depenalizzazione e di affidamento a strutture adeguate. Come potrebbe ciò realizzarsi, conciliando l'esigenza di recupero con quelle di ordine pubblico;
Il carcere non è una soluzione giusta. Il 70% dei tossicodipendenti ha vissuto il problema carcere. Su 43.000 detenuti, 17.000 sono dentro per reati legati alla droga. La stragrande maggioranza è in attesa di giudizio. Chi riesce a smettere spesso deve tornare dalla comunità al carcere, ove può ricadere.
Si parla del ricovero coatto, ma a mio giudizio esso può scardinare le comunità, che si basano proprio su un ingresso spontaneo. Del resto, la famiglia, con la richiesta di ricovero coatto, delega una funzione che le appartiene e che non dovrebbe trasferire ad altri. Né mi sembra idonea la soluzione proposta da Craxi, ossia l'applicazione della sospensione condizionale della pena o della liberazione condizionale ai tossicodipendenti, perché ciò può essere valido per chi già è stato condannato, ma non risolve il problema per coloro che sono ancora in attesa di giudizio. Dobbiamo trovare, insomma, misure alternative al carcere e ai rimedi imposti, consultando soprattutto le persone che stanno vivendo l'esperienza di cura della tossicodipendenza.
Dalle testimonianze che più volte ascoltiamo, emerge una insufficienza delle strutture pubbliche, nell'opera, peraltro molto complessa, di liberazione dalla tossicodipendenza. Sembra ci si sia appiattiti sul rimedio del metadone, che, secondo i giudizi degli stessi tossicodipendenti, non è una soluzione. Il lavoro di recupero, di reintegrazione, sembra lasciato quasi totalmente a organizzazioni di volontariato, soprattutto promosse dalle famiglie o da religiosi. Tuttavia, nonostante la buona volontà e la validità delle idee, spesso queste strutture non sono, per loro stessa natura, dotate di mezzi sufficienti, per operare. Quale potrebbe essere la forma migliore, più razionale, di cooperazione tra pubblico e privato?
Occorre un'interazione reciproca tra volontariato e apparato pubblico. Ci sono regioni avanti in questo senso, anche attraverso strumenti di convenzionamento che hanno avuto successo soprattutto in Toscana. Bisogna creare una rete di occasioni sul territorio, collegate, non in antitesi. Il servizio pubblico deve cambiare il suo ruolo, c'è un progetto alternativo al metadone che è fermo da anni.
Per una migliore cooperazione fra apparato pubblico e volontariato, bisogna individuare e sconfiggere i tre nemici:
- ideologismo, che caratterizza spesso gli interventi publici. Dobbiamo renderci conto che il problema droga va al di là di ogni ideologia;
- il protagonismo, che caratterizza a volte il mondo del volontariato;
- il consumismo, che è il pericolo sul fronte dei giovani. Dovrebbe inoltre essere creato un «I 13» della droga.
La trasmissione «Droga che fare?» ha riempito un vuoto: si è collegata con 12 terminali sparsi in Italia. Questi hanno risposto. Si è registrata una grande mancanza d'informazione.
Recentemente è stata presentata in Consiglio dei ministri una relazione del Presidente del Consiglio, che contiene un dettagliato programma di lotta alla droga. Le stesse forze politiche hanno ormai preso coscienza dell'urgenza di predisporre misure efficaci contro questa terribile piaga sociale. Quali possono essere i suggerimenti più validi al legislatore e ai politici?
È necessario, innanzitutto, consultare le realtà interessate, quando si legifera e si governa. Secondo me, non è la legge 685 che ha fallito: essa offre gli strumenti, ma non è stata applicata. Non è quindi nel cambiamento di una legge la soluzione. È un problema essenzialmente di crescita culturale: gli strumenti e le potenzialità ci sono, manca, in parte la buona volontà.
La relazione governativa, sembra, a mio giudizio, puntare solo sul volontariato, quasi in antitesi, in competitività con l'apparato pubblico: bisogna invece far convivere tentativi di risposta diversa, con l'interazione di cui parlavo prima.
Per riuscirci, per ottenere dei risultati positivi, non bisogna mai prescindere dalla esperienze già vissute, dalla realtà che è andata avanti e deve recepire le decisioni del «Palazzo»: la realtà previene le istituzioni ed esse si devono quindi adeguare, tenendo conto dei risultati conseguiti dalle strutture che hanno funzionato.















