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Reportage from USA

Nuova Politica - Reportage from USA pagina 18
Nuova Politica - Reportage from USA
Da sei mesi negli USA per studio e lavoro, il noto giornalista dell'Agenzia Italia è oggi in grado di spiegarci «dal di dentro» la campagna per le presidenziali 1988. Sogni infranti e piedi saldamente a terra in cerca di un sostituto di Reagan

«Ho ottenuto che la gente mi ascoltasse secondo le regole, ed ora la gente ha deciso», ha commentato Gary Hart al momento di annunciare di fronte ai suoi sostenitori (pochi, in verità) la decisione di ritirarsi dalla corsa alla Casa Bianca.

L'ex senatore del Colorado, c'è chi sostiene, in realtà non ha mai pensato a cercare un esame di riparazione dopo la bocciatura in seguito al caso Donna Rice, quanto piuttosto ad avviare, dopo le primarie, una proficua carriera di conferenziere.

Negli Stati Uniti si fa tutto per denaro, e pertantò anche l'oratore si paga. Se questi è stato una volta in lizza per la nomination democratica, il prezzo aumenta sensibilmente. Se lo è stato per due, arriva a cifre inimmaginabili in Italia.

È così, del resto, che si guadagna da vivere anche un altro grande ex del partito democratico, quel Mc Govern che nel '72 cercò inutilmente di sbarrare il passo alla rielezione di Richard Nixon. Le cose vanno diversamente per Gary Hart, piccolo imprenditore edile di Annapolis nel Maryland. Le primarie del 1984 e la copertura giornalistica dedicata ai casi del suo più illustre omonimo, hanno fatto brillare, anche se solo di luce riflessa, la sua ditta. Annapolis, tre quarti d'ora d'automobile dalla Casa Bianca, è tappezzata dai suoi manifesti pubblicitari dove campeggia la scritta «sono affari di cuore».

Che non si sia trattato di una cosa seria, la ha confermato indirettamente anche il presidente egiziano Hosni Mubarac. Giunto a Washington lo scorso gennaio per discutere la situazione in Cisgiordania, ha partecipato ad un dibattito televisivo. Gli è stato chiesto un giudizio sulle presidenziali. Dopo aver iniziato a parlare si è fermato come a cercare in unangolo del cervello un nome che non gli veniva. Allora si è voltato verso chi gli stava accanto e gli ha chiesto: «Come si chiama quel tipo incastrato da Donna Rice?».

I democratici sono un po' nei guai: a Mikael Dukakis manca un nome che suoni meno mediterraneo e più anglosassone. Ma ad Albert Gore manca il carisma. A Jessie Jackson, che di carisma invece ne ha da vendere, manca anche la più elementare esperienza di· amministrazione di un ente pubblico. Figuriamoci se un giorno, affermano in molti, dovesse essere lui ad amministrare il Paese. I repubblicani invece hanno trovato in George Bush un insospettato leader. La stampa adesso gli dedica maggiore attenzione e lo guarda con un po' più di deferenza.

Ma per tutti Bush resta «whimpy George», «Giorgio il piagnucoloso», l'uomo senza personalità che rischia ancora adesso di uscire con le ossa rotte dall'Iran-contras-gate.

Quale sarà il destino della fiazione, si chiedono i suoi detrattori, se a guidarla per i prossimi quattro anni sarà chi per gli ultimi otto si è limitato a seguire le direttive di Ronald Reagan? Questi è stato forse il miglior presidente degli Stati Uniti dai tempi di John Kennedy, ma è anche l'uomo le cui capacità direttive hanno portato il paese alla peggior brutta figura in politica estera del secondo dopoguerra.

Per le strade di Washington, accanto alle ultime magliette di benvenuto a Gorbaciov per il vertice di dicembre, si vendono alcune «t shirt» destinate ai sostenitori del partito repubblicano. All'altezza del cuore c'è un elefantino, simbolo del partito. Poco più in basso la scritta: «eccomi! in forma e riposato pronto per affrontare la corsa per la Casa Bianca». La faccia che c'è sotto non è quella di Bush. È quella di Richard Nixon. Il Sud quest'anno ha deciso di contare di più.

Di conseguenza dal Texas alla Carolina del sud si sono messi d'accordo per andare alle urne tutti lo stesso martedì. Il voto di un agricoltore dell'Arkansas, o di un bagnino di Miami pertanto, conta adesso in termini politici quanto, se non di più, quello di un liberal del New England.

Il successo è ancora maggiore se quell'agricoltore e quel bagnino hanno la pelle nera: quest'anno hanno fatto decollare la candidatura di Jessie Jackson.

Grazie anche al fatto che il reverendo dopo molti anni passati in quarantena viene da poco riammesso alla presenza di Caretta King, che conta di contribuire in questo modo alla realizzazione del sogno del marito.

Nel frattempo si è infranto da tempo il sogno del telepredicatore evangelista Pat Robertson.

A farne giustizia non sono stati i risultati elettorali, quanto gli scandali che da diverso tempo coinvolgono i predicatori, e che gli americani non sono disposti a perdonare, come è successo con Gary Hart, che pure non ha mai vestito la tonaca.

L'uomo che si vanta di avere una fede che ferma gli uragani e che evita che i russi dispongano nuovamente di missili nucleari sul suolo cubano, non ha potuto niente contro la potenza dei settimanali scandalistici.

«Dove è la carne» chiedeva Mondale ad Hart quattro anni fa, per indicare che Hart non era in possesso di alcun disegno politico.

Di ca:rne questa volta, sembra essercene anche troppa nei programmi elettorali: alle urne si affacciano centinaia di migliaia di diciottenni figli della «TV generation».

Placidi, ben nutriti e nati dopo il '68, sono come tanti Charlie Brown, per il quale la felicità consiste nel mangiare una fetta di torta con tanta panna e sapendo che dopo ce ne sarà un'altra. I tempi della «nuova frontiera» sembrano lontanissimi.

I diciottenni di quattro anni fa votarono in massa per Ronald Reagan.

Per spiegare il fenomeno ci fu chi ricorse alla psicanalisi.

I giovani, fu detto, hanno visto nel presidente la figura di un padre o di uno zio saggio.

Un personaggio che, data l'alta percentuale di divorzi, spesso manca alle giovani generazioni.

Questa volta i giovani. hanno di che sentirsi orfani. Ma non solo loro. Come durante la presidenza di Carter, si • respira l'atmosfera da fine di un'epoca. Non a caso il libro più venduto in questi giorni ha come titolo «il declino delle grandi potenze». L'autore, Paul Kennedy, è categorico: il prossimo secolo sarà ineluttabilmente il secolo del Giappone.

L'americano medio sente ora più che mai il bisogno di un leader. Ma di leader in circolazione sembrano non es_. sercene. Anche se c'è un nome che aleggia fra le righe delle analisi politiche. Il nome di Mario Cuomo, chiamato a gran voce dall'Economist a partecipare alla corsa alla Casa Bianca e che invece si tiene in disparte.

A chiedere per la strada se sarà lui ad ottenere la nomination democratica, la gente scuote la testa: è impossibile dal momento che non è neanche in lista per le primarie.

Ma da qua ad agosto c'è ancora tempo. Inoltre non è da escludere un colpo di scena in piena convention: se il partito vi giungerà diviso è probabile che vinca il migliore nelle trattative di coridoio.

In questa specialità i migliori in America sono gli Irlandesi e gli Italiani. E Ted Kennedy non ha alcuna intenzione di presentarsi candidato.

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Simone Secondini

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