La prima tappa del mio «election study tour» è Boston, in cui arrivo, direttamente da Francoforte, il 25 ottobre nel tardo pomeriggio (ormai notte in Italia).
Mi accorgo di essere arrivato in «America» quando entro nella «city» di Boston, rimango infatti colpito da quei grattacieli di cristallo, altissimi, sontuosi, misteriosi e affascinanti nello stesso tempo quasi inaccessibili.
Alloggio proprio in uno di questi misteriosi edifici, che assumono più l'aspetto di grande centro commerciale che non di albergo vero e proprio. Mi trovo quindi nella new America, dove la società delle tecnologie avanzate domina la vita sociale e politica del paese. Qui il computer è un ordinario strumento di lavoro che viene utilizzato concretamente in tutte le fasi della vita quotidiana, persino la tradizionale chiave delle camere d'albergo viene sostituita da un moderno cartoncino magnetico perforato, programmato appositamente per aprire quella determinata porta. Proprio con uno di questi videocomputer devo cominciare a prendere dimestichezza per conoscere il programma che l'ACYPL (the American Council of Young Political Leaders) ci ha riservato per il giorno successivo.
Il 26 ottobre abbiamo il primo contatto diretto con la vita politica statunitense. Siamo ospiti della John F. Kennedy School of Government della Harvard University di Boston. Si tratta di un istituto universitario di studi politici amministrativi ad alta specializzazione; è una scuola che prepara i giovani (non solo americani) con approcci rigorosamente scientifici ad affrontare l'analisi politica, la scienza di governo e il complesso sistema di relazioni internazionali.
In quella sede si è tenuto un acceso dibattito sulle elezioni negli Stati Uniti. Protagonisti, insieme alla nostra delegazione e ad alcuni studenti della Harvard University, un «political reporter» del quotidiano locale «Boston Globe», il conduttore del telegiornale del «WGBH-TV Boston», un consulente di comunicazioni sociali e con un consulente di pubblici affari. Il motivo dominante di questa tavola rotonda è l'influenza dei mass media nelle scelte elettorali dei cittadini degli Stati Uniti, il significato dei sondaggi preventivi, le tecniche manageriali di gestione della campagna elettorale. Insomma qui la politica non solo è immaginata diversamente, ma è anche gestita con criteri diversi, basti considerare i rilevanti costi di una campagna elettorale per l'elezione a senatore: nel Massachussets, Shamie, il candidato repubblicano, ha dovuto affrontare un costo di due milioni di dollari (4 miliardi di lire circa) per una campagna elettorale che, peraltro, non lo ha visto vincitore; lo stesso dicasi per Lloyd Doggett's, candidato democratico del Texas, per il Senato che ha speso 6 milioni di dollari (12 miliardi di lire), senza contare poi i 2 candidati del North Carolina che, insieme, superano abbondantemente i 20 milioni di dollari (40 miliardi di lire). Dal Massachussets si passa direttamente, dopo 4 ore di volo, sul Texas, uno Stato grande oltre che per le sue dimensioni geografiche anche per la sua storia, i suoi prodotti e il suo popolo. Conosciamo il Texas attraverso tre città: Dallas, capitale finanziaria dello Stato, una città fortemente urbanizzata nel cuore del centro storico con grattacieli di vetro che sono in stridente contrasto con l'immediata periferia composta di quartieri e di zone di estrema povertà; Austin, capitale politica, sede istituzionale del Senato; San Antonio, la Venezia del Texas, importante centro turistico dello Stato popolato soprattutto da uomini di origine messicana, siamo infatti verso i confini con il Messico. Durante la nostra permanenza in Texas siamo stati ospiti di Billy Clayton, «speaker del Senato (presidente del Senato) texano e noto proprietario terriero, apprezzato e stimato da tutti per le sue qualità di uomo disponibile al contatto con la gente e nel contempo capace di guidare autorevolmente i lavori del Senato.
Ma non mancano incontri anche con candidati texani, sia al Senato che alla Camera dei rappresentanti.
A Dallas, in un garage adibito ad ufficio, incontriamo Phil Gramm, repubblicano, candidato al Senato, convertito al reaganismo due anni fa durante la votazione sul programma di risanamento economico di Reagan.
Ad Austin incontriamo Loyd Doggett's, giovane leader del partito democratico, candidato al Senato, energico, attivo, che esprime con molta disinvoltura la linea più progressista del partito democratico.
Ma il viaggio prosegue a ritmo incessante, e si punta ora alla North Carolina, ma prima di arrivare ci fermiamo in un piccolo aeroporto vicino ad Austin dove si svolge un Reagan and Bush Blitz Victory. Si tratta di una conferenza stampa con diversi candidati del partito repubblicano e con diversi manager del Comitato elettorale di Reagan e Bush. Non vi è stata molta sostanza politica, ma l'iniziativa ha avuto molta rilevanza (per certi versi anche spettacolare) pubblica.
Arriviamo a Raleigh in North Carolina, dove siamo ospiti della Duxe University, giusto il tempo di conoscere il presidente dell'università, l'ex governatore dello Stato, qualche studente per renderci conto della situazione, poi via alla volta della capitale politica.
A Washington, prima di immergerci nel culmine della campagna elettorale politica affrontiamo i sindacati americani (AFL-CIO) e in particolare Mike Gildea, assistente del Direttore di Legislazione e Ben Albert Direttore delle Pubbliche Relazioni.
Ci rendiamo immediatamente conto della diversità tra le relazioni industriali in USA e quelle in Italia.
L'unica preoccupazione dei due dirigenti sindacali era di spiegarci perchè il sindacato votava Mondale.
Ma il fatto che il sindacato esprimeva preferenze politiche non ha fatto nemmeno cronaca sui giornali.
Qui la vita politica vive un'altra dimensione.
E giunge finalmente l'«Election Day». Si parte alla buon ora per assistere ad alcune operazioni di voto nella contea di Fairfax in Virginia.
In questo Stato si vota ancora col sistema tradizionale manovrando una grande leva pesante e tante piccole levette, ma nella maggior parte degli altri Stati americani come il Texas, l'Illinois ecc. vengono utilizzati veri e propri seggi elettorali computerizzati. Tanti elettori americani hanno quindi votato inserendo una scheda perforata in un terminale collegato ad un computer centrale. Ma a fianco di queste immagini da «società delle tecnologie avanzate» troviamo nei pressi del seggio significative immagini di insegnanti, alunni e genitori che vendono torte e pasticcini casalinghi per rendere più accogliente e più gustoso l'impatto con la struttura elettorale.
Il tour prosegue e nel frattempo la mobilitazione elettorale giunge ai punti caldi. Facciamo visita, sempre nella contea di Fairfax, alla Reagan Phone Bank. Si tratta di una vera e propria banca dei telefoni appositamente creata dal comitato elettorale per sollecitare al voto i ritardatari.
È una struttura semplice, costituita dalla somma di tanti telefoni da cui molte donne e molti anziani raccolgono dati informali sulle preferenze elettorali e richiamano i cittadini inadempienti ad espletare il loro diritto-dovere.
Alla fine di questa breve visita apprendiamo che in Virginia, Reagan ha già il 60% dei suffragi, in pratica ha già conquistato lo Stato.
Ma ciò non significa niente, mancano ancora 49 Stati, tutto è possibile.
Poco dopo, di ritorno a Washington, apprendiamo i restanti esiti delle votazioni al Washington Hilton, sede del «Victory party» del partito democratico; troviamo facce scure, p'ochi sorrisi, molti commenti, troppe analisi politiche, ma nulla di ufficiale. Gradualmente si apprende della sconfitta che Walter Mondale sta subendo, complici certamente la sua scarsa dimestichezza col mezzo televisivo, l'eccessivo carisma dell'avversario, la favorevole (per il Presidente) congiuntura economica, la crisi di proposta in cui sta versando il partito democratico.
La delusione si leggeva sulle facce di tutti: un giovane elegante con evidente sforzo cercava di trattenere le sue emozioni senza peraltro riuscire a nascondere una lacrima che, vergognandosi, ha asciugato frettolosamente.
Questa lacrima era solamente la prima, vista in una serata dove più visi erano inumiditi; molti hanno pianto per la delusione, per reazione, dopo la tensione, per rabbia e infine per commozione.
Ci spostiamo quindi allo Sheraton Hotel, dove si svolge il Repubblican Vietory Party, quello veramente vittorioso. Clima di grande entusiasmo e di grande euforia al contrario di quanto accadeva dai democratici.
Il salone era vuoto e freddo; le luci fortissime her le riprese televisive e una musica assordante di un orchestra accanto al palco coprivano ogni cosa, soprattutto i sentimenti confusi dei presenti.
ln questo grande salone si attende solo l'annuncio ufficiale della rielezione. Tra le otto e le otto e trenta di sera i tre network hanno annunciato che il presidente in carica era stato rieletto, aveva già raggiunto quota 270, soglia critica per raggiungere la presidenza. Il resto non fa più cronaca. Questo annuncio ha polverizzato la folla repubblicana presente nel salone del Victory Party, che successivamente ha esultato e accolto con gigantesche ovazioni la conquista di ogni Stato.
Ma torniamo ad osservare, proprio per mera curiosità, i democratici nel loro head-quarter: il clima depresso non cambiava. In tutte le sale dell'hotel straripavano repubblicani, il salone della vittoria era impressionante, l'entusiasmo alle stelle. C'erano le solite centinaia di attivisti democratici che assistevano sconsolati alla propria sconfitta. L'unico leader a farsi vivo era il reverendo Jessie Jackson, che, esaltando la compattezza del voto negro, invitava, con molta grinta e determinatezza, a non scoraggiarsi ed a riprendere l'iniziativa. Ma sono solo parole...
Ma mancano le dichiarazioni più ufficiali, che non si fanno molto attendere, visto che Ronald Reagan verso le 11 pronuncia il discorso di ringraziamento.
Lo ascoltiamo, direttamente da Los Angeles, nella festa della vittoria del Partito Repubblicano, mentre pronunciava un discorso non molto dissimile anzi. decisamente è lo stesso clichè, dei numerosissili che egli ha fatto durante la campagna elettorale.
«Quattro anni fa, dice Reagan, quando celebrammo la vittoria in questo stesso salone, la nostra nazione si trovava ad affrontare alcuni profondi e gravi problemi ma invece di lamentarci insieme noi ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo cominciato a lavorare insieme.
Dicemmo che avremmo controllato l'inflazione e l'abbiamo fatto. Dicemmo che avremmo rimesso l'America al lavoro e abbiamo creato oltre 6 milioni e mezzo di posti di lavoro. Dicemmo che avremmo rallentato la crescita del governo e il tasso d'aumento delle spese e l'abbiamo fatto. Dicemmo che avremmo abbassato i tassi di interesse e l'abbiamo fatto. Dicemmo che avremmo ricostruito la nostra difesa e preparato l'America alla pace, e l'abbiamo fatto.
Ora, mi piacerebbe attribuirmi il merito per tutto questo, ma il merito va al popolo americano: a ciascuno di voi. E il nostro lavoro non è finito. C'è ancora molto da fare. Vogliamo rendere più sicura ogni famiglia, aiutare quelli della nostra città, delle campagne e delle nostre industrie più vecchie, che non si sono ancora rimesse in piedi. E la ripresa non sarà completa fino a quando non sarà completa per tutti.
Ricostruendo la nostra forza noi ci avviciniamo al giorno in cui tutte le nazioni cominceranno a ridurre gli armamenti nucleari, e infme lì metteranno al bando dalla Terra intera.
I migliori giorni per l'America sono quelli che ci stanno di fronte e sapete – mi scuserete se lo dico ancora una volta – non avete ancora visto niente». Pochi messaggi, semplici, quasi banali, ma messaggi che hanno fatto presa sulla gente comune, sulla gente che vive l'America tutti i giorni e ne conosce i caratteri. Soprattutto se qualcuno dì questi messaggi sì è concretizzato in una qualche misura Sono proprio i messaggi che la gente vuole sentirsi recitare.
Walter Mondale, direttamente dal Minnesota, ha aspettato la chiusura dell'ultimo seggio, poi, alle 11 in punto è apparso davanti alle telecamere e, trattenendo a fatica le lacrime, ha ammesso la sconfitta. Dopo aver parlato brevemente di come gli americani abbiano prestato un orecchio attento a quanto egli aveva da dire e di come «avendo viaggiato più di chiunque altro» abbia sempre trovato incoraggiamenti, che gli hanno dato la forza di continuare, Mondale ha detto: «Non abbiamo vinto, ma abbiamo fatto storia. La lotta è appena cominciata».
«La mia sconfitta di questa sera – continua Mondale – non riduce in alcun modo il valore dei nostri sforzi».
I democratici che hanno seguito i risultati delle elezioni all'Hilton hanno applaudito con vigore il loro candidato che, con gli occhi gonfi di lacrime aveva segnato l'epilogo di una battaglia iniziata il 28 febbraio con le primarie del New Hampshire.
Ma la crisi del partito risulta estremamente accentuata, ed ormai l'obiettivo politico del partito non sono le presidenziali dell'88 ma del '92! Questo testimonia la gravità e la profondità della crisi in cui versa il partito, che oggi, per procedere al risanamento deve adottare una strategia politica complessiva articolata in otto anni.
Non è bastato il richiamo da parte di Mondale ai poveri, ai disoccupati, agli anziani, agli handicappati e agli infelici, per recuperare consenso.
La vittoria di Reagan, d'altra parte, ha chiari connotati «neo-modernisti». Dalle prime scomposizioni del voto, confermate poi dalle successive proiezioni, si evince che la maggioranza dei cattolici è per Reagan.
Gli uomini pure. I giovani, a valanga, soprattutto quelli che hanno votato per la prima volta. li incitare è riuscito a prevalere in quasi tutto l'immenso arcipelago etnico e sociale di questa nazione: dai protestanti, ai cattolici, dal vecchio ceppo che dis ende dai colonizzatori anglosassoni alle comunità irlandesi ed i «neo» americani. La saldatura è quindi chiara ricchi e classi medie (operai inclusi) ai repubblicani, minoranza e classe media intellettuale (gli idealisti) ai democratici.
È un voto contro il Welfare, contro le tasse, contro la parità di salario tra uomini e donne. Idealisti e poverissimi non fanno numero nelle presidenziali, ma riagganciano la classe media nelle altre votazioni, da qui proviene il miglioramento nelle altre votazioni per il Senato, la camera dei rappresentanti ecc...
Ma anche «Gerry» personaggio dell'anno non si fa attendere all'Hilton di New York. Giunge tra le ovazioni della folla che scandisce «Gerry, Gerry».
A presentare Geraldine Ferrara è stato il governatore dello Stato di New York Mario uomo, con un brevissimo discorso, Gerry con molta semplicità e senza drammatizzazioni raccoglie un grande a petto positivo, soprattutto per merito dei democratici, quando afferma che anche le campagne elettorali perdute servono pur sempre ad uno scopo.
«La mia candidatura – dice Geraldine – stabilisce che i giorni della discriminazione sono contati».
«Le donne americane – ha concluso Geraldine Ferrara – non saranno mai più cittadine di seconda classe».
L'unica speranza e che non sia la solita frase di circostanza, ma forse la retorica era di altri tempi, oggi, ciò che conta è il concreto, l'immediato.
A mezzanotte, tutti ormai stanchi, i democratici lasciano l'Hilton in massa. All'uscita ancora qualcuno compra il distintivo Mondale-Ferrara, lo indossa con orgoglio e affronta le strada di Manhattan con le parole di Mondale che ancora gli risuonano dentro: «Non abbiamo vinto ma abbiamo fatto storia e questa battaglia è appena iniziata. La mia sconfitta stanotte non ha in alcun modo sminuito l'importanza della nostra battaglia. Continuiamo ad impegnarci per un'America giusta».
Nel quartiere generale dei repubblicani a Washington continuano le danze, in questo grande clima euforico, fino a tarda notte. L'entusiasmo ha esaltato tutti ed è letteramente scoppiato quando, verso le 10,30, hanno fatto il loro ingresso alcuni ministri, pare ci fosse anche l'ex segretario di Stato, il generale Haig.
Ma l'importante era la «stravittoria» e questa è avvenuta puntualmente, ora bisogna pensare al futuro.
Si è trattato di una vittoria personale, ai limiti della spettacolarità: Reagan, al di là del partito che ha presentato qualche pecca, ha dimostrato, anche rispetto ai suoi predecessori (Johnson, Nixon, Ford, Carter), molta sicurezza e molta ingenuità morale, ha dimostrato capacità nell'affrontare con risposte concrete la crisi economica.
Queste capacità, nella società non solo americana degli anni '80, va al di là della compattezza e della strategia politica del partito.
Le previsioni della vigilia sono state rispettate: Ronald Reagan ha vinto, anzi stravinto. Questo risultato ha certamente consolidato la leadership personale del presidente, ha rafforzato il partito repubblicano ed ha sottolineato la crisi di quello democratico. Ma le ascese o le discese dei partiti americani, che assomigliano molto più a comitati elettorali, che a partiti politici veri e propri, hanno sempre un valore effimero, per lo più legato al prestigio personale del leader.
Non sappiamo se si potrà parlare quindi di svolta storica nella vita politica degli Stati Uniti, semplicemente la rielezione di Reagan rispecchia la priorità dei problemi interni nelle scelte politiche di un popolo americano che ha espresso il suo apprezzamento per la ritrovata fase di prosperità del paese.
Ma l'immagine e la popolarità del presidente dovranno essere verificate anche nei prossimi anni sia sul piano interno (non sempre la congiuntura economica trasforma la prosperità in benessere) che sul piano internazionale (l'accordo con i sovietici su uno stabile equilibrio degli armamenti è ancora una speranza, forse oggi più forte dopo l'annuncio del nuovo contatto che ci sarà a Ginevra a gennaio, tutto da concretare).













