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Ghino di Tacco e l'assalto alla diligenza

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Tre anni e più di governo finiti male. un possibile leader deÌl'Italia sedicente laica e sicuramente antidemocratica che alla fine ha rivelato i suoi veri panni di Ghino di Tacco, una DC che non deve condividere le responsabilità della caduta del governo e delle elezioni anticipate: questo molto in sintesi il succo della schiera di articoli ed articoletti, corsivo e fondi che la stampa italiana ha dedicato agli avvenimenti politici degli ultimi mesi. Avvertimenti che ha rilevato Eugenio Scalfari, almeno hanno ridato alla gente il gusto della discussione politica dopo anni di crisi dell'impegno.

«Noi», ha scritto sul «Il Giornale» Indro Montanelli facendo un primo bilancio di quasi quattro anni di Italia a sedicente guida socialista, «dobbiamo essere grati a Craxi di molte cose.

Anzitutto di aver sottratto il partito socialista al giogo totalitario di quello comunista, ancorandolo saldamente alle democrazie occidentali e ali'Alleanza atlantica: questo è un merito che nessuno gli può contestare. Secondo, di aver dato per tre anni e mezzo all'Italia. che se n'era dimenticata, la sensazione di avere un governo, che forse non ha fatto molto per creare le favorevoli congiunture in cui si è trovato ad operare. ma certamente non ha fatto nulla per ostacolarle: e anche questo, in un Paese come il nostro, è da medaglia. Lo è anzi tanto da indurci a una certa indulgenza per gli errori, e qualche volta anche per gli orrori che Craxi e il suo partito ci ispirano.

Quando, la vigilia della marcia su Roma, Mussolini parlò al teatro San Carlo di Napoli, ad ascoltarlo in un palco, con visibile compiacimento, c'era Benedetto Croce. «Ma non vi sembra un ciarlatano?», gli chiese De Ruggiero che sedeva accanto a lui.

«Certo – rispose Croce – , ma i politici devono esserlo».

Noi altrettanto pensiamo di Craxi, ogni volta che ci sentiamo offesi dalla sua spregiudicatezza (uso un eufemismo), dalla sua arroganza, e dalla avventurosità (altro eufemismo) delle sue bande, che in fatto di assalti alla diligenza credo abbiano poco da invidiare a quelle di Ghino di Tacco (gli pseudònimi non si scelgono a caso).

Attributi tipicamente socialisti che, continua Montanelli, sono serviti anche in occasione della battaglia per i referendum, che non solo «spaccano il Pentapartito: spaccano l'Italia. Craxi non può ignorarlo. E allora?» Allora il disegno politico di Craxi è quello delineato da Ugo Stille sul «Corriere della Sera», quello, vale a dire, «di rompere il bipolarismo Democrazia cristiana-Partito comunista, che aveva retto per oltre un trentennio il sistema italiano e ritagliare al Partito socialista uno «spazio autonomo» tale da evitargli di essere subalterno al Pci (come nel periodo del frontismo) o alla Dc (come nel periodo del centro-sinistra).

Fin qui neanche niente di male. «Cicero pro doma sua», come si diceva in altri tempi. Ma portare all'eccesso certi attegiamenti può anche far male. L'atteggiamento di 11 anni di PSI craxiano lo ha descritto Scalfari su «Repubblica» del 4 aprile. Gli effetti Claudio Rinaldi su «Panorama» del 3 maggio «il PSI craxiano», ha scritto Scalfari «ha sempre avuto bisogno del Nemico perché ha avuto come tattica costante quella di portare la guerra in casa altrui. Quando era vivo Berlinguer, il Nemico era lui e la politica del gruppo dirigente socialista s'era proposta come obbiettivo prevalente quello di rivoltargli contro una parte dei suoi e comunque di scalzarlo dalla leadership. Sembrava che il solo ostacolo alla divisione tra socialisti e comunisti fosse lui, defenestrato il quale tutta la sinistra italiana sarebbe finalmente ritornata concorde e forse addirittura unita. Berlinguer morì poco dopo la grande fischiata riservatagli dal congresso socialista di Verona, ma da allora non pare che la concordia a sinistra abbia fatto grandi passi avanti.

Da qualche tempo il Nemico ha cambiato sede e sembianze. Ora è De Mita, e il Psi fa appello contro di lui alla «parte sana» della Dc. Ironie della storia: la «parte sana» è rappresentata da Andreotti-Belzebù; ma chi si preoccupa di ricordare queste incongruenze sotto le volte maestose del Tempio socialista di Rimini?».

Claudio Rinaldi è redattore di un settimanale che dovrebbe avere forti ed istintive simpatie per il socialismo alla Craxi. Invece scrive: «Durante quattro anni di presidenza del Consiglio socialista, di Craxi se n'erano visti almeno tre, tutti di alto profilo anche se dai comportamenti non sempre irreprensibili: l'accorto uomo di Stato; il tenace realizzatore (o come si volle dire polemicamente, il decisionista); il campione della stabilità politica. Adesso, di questi tre Craxi è rimasto ben poco. Ed è rispetto a questo passato, e ai suoi ingombranti fantasmi, che il leader socialista appare sorprendentemente solo.

L'uomo di Stato è scomparso, lasciando al proprio posto un uomo di piazza: il quale non solo è tornato «ad agitare garofani», come aveva promesso, ma lo ha fatto in modi più concitati del previsto. Per esempio proclamando la provvidenzialità e, come dire?, la sanità dei referendum abrogativi sul nucleare e sulla giustizia, e opponendo un inatteso rifiuto a qualsiasi tentativo di soluzione legislativa del problema. Per esempio dimenticando la vastità del proprio stesso progetto di una Grande Riforma delle istituzioni e riducendolo all'idea dell'elezione diretta del capo dello Stato da parte dei cittadini (...)

I fatti nudi e crudi, al di là delle mosse tattiche e delle chiacchiere profuse da ogni parte negli ultimi due mesi, dicono insomma che Craxi non ha voluto sostenere un governo a guida dc nell'ultimo anno della legislatura, rifiutando l'unica condizione posta dalla DC (un accordo anti-referendum), mentre la DC per quattro lunghi anni aveva appoggiato la presidenza socialista praticamente senza condizioni. Piuttosto che lasciar palazzo Chigi a testa alta, sobriamente, come si era impegnato a fare nel luglio 1986, Craxi ha preferito andarsene fra accuse a Francesco Cossiga, sgarbi a Fanfani (il mancato passaggio delle consegne), impennate (l'asL senza di Pasquetta). E, così, ha messo a repentaglio l'immagine di forza tranquilla, seria, affidabile che aveva cercato di costruirsi per quattro anni. C'è da chiedersi perché lo abbia fatto; e se sia stato conveniente, per lui, incamminarsi verso le elezioni con un look da apostolo della democrazia diretta, o da ringhioso destabilizzatore».

Scalfari di suo rincara la dose («Repubblica», 1/2 marzo e 18 aprile): «L'onorevole Craxi – lo sappiamo – è il sostenitore più autorevole d'un grande partito riformista. Questo partito, del quale molti italiani avvertono il bisogno e l'urgenza, avrebbe dovuto cominciare intanto a riformare se stesso per acquistare credibilità e proporsi come strumento efficace di riforma nelle istituzioni e nella società circostante. Purtroppo quasi quattro anni, da questo punto di vista, sono passati invano e noi ci ritroviamo un poco più vecchi e assai più delusi.

Bisogna ora interrogarsi sul perché il leader socialista sia arrivato a questo punto e sul perché nel suo partito – tranne qualche voce isolata – non vi sia nessuna consistente reazione capace di contenere l'ira funesta del gruppo craxiano. Il potere d'interdizione del leader socialista si è basato in tutto questo lungo periodo sull'uso spregiudicato di una rendita di posizione che non ha avuto altro fine salvo quello di avvilire le regole del gioco democratico con un'azione tenace, sistematica e penetrante».

Un potere di interdizione, quello socialista, che Craxi, ha sentito di esercitare contro il capo dello Stato, alla fine. Ecco ancora cosa ne pensa Scalfari (4 aprile): «La crisi è stata tra le più difficili della nostra storia repubblicana e in qualche passaggio ha messo a repentaglio le istituzioni. Si deve soprattutto al senso di responsabilità e alla lucida fermezza del Capo dello Stato se i danni non sono stati maggiori e se alla fine il dettato costituzionale ha prevalso su un improbabile copione più adatto al teatro dell'arte che alle aule del Parlamento (...)

Chi riteneva che Francesco Cossiga si limitasse ad esercitare un ruolo sbiaditamente notarile si era dunque sbagliato: il Capo dello Stato, nel pieno rispetto delle regole costituzionali, allarga le prospettive ormai troppo anguste del gioco politico e ridà spazio al confronto tra le varie forze senza pregiudizi di sorta. Un contributo, dunque, altamente positivo, che si muove nella direzione d'una reale governabilità del sistema».

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