Riformismo garibaldino
I1 mutamento di rotta del PSI negli ultimi dieci anni, con la segreteria Craxi, può stupire, incuriosire, meravigliare per alcuni suoi eclatanti aspetti. Ma lungi dallo scandalizzarci o dal manifestare reazioni emotivamente negative, occorre prendere atto di una realtà nuova e di una nuova esperienza politica, per molti versi·condivisa dalla sinistra occidentale, nel suo cammino di «revisione ideologica», itinerario compiuto forse più velocemente, o con più spregiudicatezza, di quanto fosse naturale attendersi solo qualche anno fa. Credo che si possa tranquillamente affermare che, almeno nelle intenzioni, e per quanto riguarda finalità ed obiettivi, la svolta del nuovo PSI sia da giudicare con grande interesse.
Non può non far piacere a noi, europeisti da sempre, e sostenitori della necessità inderogabile dell'Europa unita ed organizzata, la conversione del PSI, conquistato finalmente senza reticenze alla causa comunitaria.
Non può, parimenti, non essere notato con soddisfazione l'abbandono di molti dei vecchi e stantii schemi ideologici di stampo vetero-marxista, completamente inadeguati ad una moderna le tura della complessità della società contemporanea. Non può, infine, non essere condivisa l'attenzione che il «novello PSI» sembra voler riservare a quanto di nuovo emerge nel Paese, ai bisogni e alle domande che dalla gente salgono verso il «palazzo». Detto questo, però, risulta utile ed anzi necessario cominciare a ragionare e ad interrogarci sui modi in cui questi processi sono avvenuti, sulle risposte che il «riformismo craxiano» (ben supportato dalle strumentali provocazioni di Martelli e soci) crede di poter dare oggi al Paese, e, in fin dei conti, sul progetto e sulla visione politica del socialismo italiano degli anni novanta.
Al di là delle orgogliose autocelebrazioni e delle rivendicazioni al «primo governo a guida socialista» di meriti più o meno reali, quello che emerge chiaramente dagli ultimi documenti ufficiali di Via del Corso è il profilo di una politica caratterizzata da numerosi punti oscuri e da non poche ambiguità. Al grido di «è tornata la fiducia», figlia dell'«ottimismo della volontà», i socialisti scoprono il «nuovo», identificano quelli che sono i mali italiani, intervengono con stile garibaldino tanto caro al Presidente del Consiglio, e, con raro senso di efficienza li risolvono!!
Il primo governo a guida socialista tenta, così, di accreditarsi come l'evento politico più importante degli ultimi anni, destinato a lasciare traccia indelebile nella storia della Repubblica.
Anche se così fosse (e così non è), anche se veramente in questi tre anni, grazie solo al decisionismo craxiano, si fosse riusciti a fare dell'Italia un Paese moderno ed attrezzato alle sfide del progresso, ebbene neanche allora si potrebbe fare a meno di notare che l'idea che Craxi e compagni hanno della politica e del riformismo si fonda su assurde semplificazioni.
Colpiscono, in questa prospettiva, ad esempio, i duri attacchi che sempre più frequentemente i socialisti rivolgono al periodo della solidarietà nazionale, una fase di cui ancora non è possibile tracciare un giudizio storico definitivo, ma di cui parimenti non si può certo disconoscere l'importanza per il Paese. Ci sono tutti gli elementi per credere che la critica dura di quell'esperienza abbia in fondo, e nemmeno tanto nascostamente, come bersaglio i due protagonisti di quegli anni: DC e PCI.
E una tendenza, questa, ricorrente, forse imputabile a quella sorta di «complesso» avvertito dai socialisti che «avevano sulla pelle – come recentemente ha detto Craxi – i segni del lungo scontro con i comunisti, ma anche i segni della lunga collaborazione con la DC, eternamente stretta nella tenaglia fra la subalternità e il rischio di doversi addossare la responsabilità della instabilità politica, dell'ingovernabilità del Paese».
Affermazioni come questa, piene di insofferenza e di spunti polemici nei confronti delle due forze popolari della politica italiana, prefigurano una posizione ed una impostazione politica che è elitaria e di stampo illuminista, che non è azzardato definire piena di superbia, oltre che limitata e miope (rispetto ai bisogni, non solo economici, del Paese).
E su questo punto della visione politica socialista credo che non si possa tacere.
Non possiamo tacere soprattutto noi, democratici cristiani, che della politica abbiamo un'altra, diversa, idea. Non si tratta di stabilire chi sia più riformista, o chi lo sia da più tempo, ne tanto meno, di rivendicare eventuali «diritti d'autore» su scelte compiute in anni ormai lontani.
La questione vera è ristabilire le regole della politica. E la prima regola della politica stabilisce che nel governare le realtà e guidare l'evoluzione dei processi sociali non si può e non si deve prescindere dal consenso.
Se è vero, come è vero, che ci troviamo di fronte ad una realtà in trasformazione, complessa per molti aspetti caratterizzata da frammentazione e conflittualità tra i soggetti sociali, tra gli interessi e le esigenze che questi rappresentano, dobbiamo riaffermare con forza che questo conflitto, questo scontro non si risolve con il prevalere dell'interesse più forte.
Compito delle forze e dei partiti popolari, insostituibili in questo, è quello di farsi carico, di tutelare e di rappresentare tutti gli interessi lettimi, gli interessi più deboli, gli mteressi diffusi. La politica diventa allora mediazione per dare voce alla gente, partendo dall'individuo.
La società e le forze che in essa si muovono, le istituzioni, il potere sono i tre poli di uno schema che è sì complesso; ma guai a trovare in questa complessità l'alibi per operazioni trasformiste che, dietro la facciata di un nuovo riformismo «made in Italy», nascondano solo la cattiva coscienza di chi vuole gestire un potere fine a se stesso. Guai, soprattutto, a cercare di risolvere questa complessità attraverso semplificazioni pericolose: il risultato sarebbe quello di sostituire le funzioni peculiari della politica e delle istituzioni con «l'autorità» (anche solo presunta) di pochi «arbitri». Lo sforzo a cui oggi bisogna tendere, invece, è quello di recuperare l'organicità del sistema. E questa organicità non si salvaguardia privilegiando, a turno, uno degli elementi dello schema: la società sullo Stato e le sue istituzioni, l'ecònomia sulla democrazia, il diritto sulla libertà, e viceversa.
Solo in questo equilibrio, solo in questa organicità (che ereditiamo dalla grande lezione sturziana) si realizzano le condizioni di una convivenza giusta, di una politica che garan'tisce tutti.
Un'altra politica, si chiami pure «riformismo», rischia di vestirsi di nero.













