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Non siamo territori d'oltremare

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Nuova Politica - Non siamo territori d'oltremare

Parlandone prima dell'estate, il Capo dello Stato ha paragonato l'emergenza mafia che investe il nostro Paese alla crisi algerina che colpì la Francia della quarta repubblica ed ha proseguito affermando che non aspirerebbe al ruolo di De Gaulle, ma a quello di Coty. Il problema algerino vedeva da un lato la spinta di quel popolo verso l'indipendenza, dall'altro la strenua opposizione della comunità francese d'oltremare, che voleva restare legata alla madre patria. Coty, Presidente di una repubblica parlamentare, ritenendo che la situazione stesse precipitando verso la guerra civile e che le istituzioni della quarta repubblica fossero troppo fragili per la gravità dei tempi, nominò De Gaulle Primo Ministro, l'Assemblea Nazionale votò i pieni poteri al generale, di lì a poco con un referendum di revisione costituzionale si passò alla forma di repubblica presidenziale e De Gaulle fu eletto Presidente. Tutto questo avvenne in pochi mesi, dal 1° giugno '58 all'8 gennaio '59, sulla spinta emozionale degli avvenimenti algerini.

Dopo di che l'Algeria ottenne l'indipendenza e frange oltranziste della comunità francese d'oltremare d'intesa con parte dell'esercito portarono il terrore nella francia metropolitana, che visse in quegli anni la più grave crisi di ordine pubblico, che abbia mai scosso un Paese dell'Europa occidentale nel dopoguerra, finendo sull'orlo del colpo di stato militare con il coinvolgimento di alti gradi delle forze armate a cominciare dal governatore militare di Parigi generale Salan. La scelta dell'uomo forte e del cambiamento istituzionale non valse a risolvere il problema, ma semmai lo inasprì, accendendo pericolose aspettative, che una volta deluse si rivoltarono con virulenza contro lo Stato; servì solo per l'affermazione del gollismo.

Ognuno di noi, quando si parla di mafia, ha la tentazione di ridurre il problema entro i confini geografici in cui il fenomeno è nato o in quelli prossimi ove più evidentemente si è sviluppato, farne una questione d'oltremare o di quel meridione che molti sentono come un peso per lo sviluppo della Nazione; c'è chi cerca il consenso popolare proponendo il distacco di una parte del Paese dall'altra, come se questo potesse costituire un'emancipazione dal problema, dagli oneri che esso pone ed una fuga verso il benessere. Così ragionando facciamo il gioco dei mafiosi, perché vanifichiamo lo sforzo di quanti alla mafia si sono opposti e si oppongono ed offendiamo la memoria di chi è caduto per difendere questo Stato. La questione è nazionale e dividendo e disaggregando la nostra comunità statuale rafforziamo il potere della mafia.

La mafia, che raccoglie tributi per trentamila miliardi di lire all'anno su tutto il territorio nazionale, nella poco meridionale Valle D'Aosta il fenomeno delle tangenti è aumentato del 185% negli ultimi dodici mesi, che trae risorse enormi dal traffico della droga, che controllano direttamente imprese ed esercizi commerciali, che influisce sul voto popolare, che decide chi lavora e chi no, chi vive e chi muore, che ha abbassato, in un Paese in cui tanto si discute di qualità della vita, il valore della vita umana al di sotto del milione di lire, per così poco reperisce chi è disposto ad uccidere, non può più essere considerata semplicemente un' associazione a delinquere od un insieme di tali associazioni, essa è il più grande nemico della democrazia effettiva nel nostro Paese e dell'esercizio delle libertà fondamentali dell'individuo. Di questo fenomeno noi abbiamo una conoscenza nevrotica, il lavoro delle forze dell'ordine, dei magistrati, delle commissioni di inchiesta non è bastato a svelarcene i segreti, ad individuare le più alte responsabilità, ma solo a spostare il segreto altrove ad un livello più inaccessibile che copre una verità drammatica che ci pare impenetrabile.

Se poi consideriamo quanto il costume dell'illegalità e l'abitudine di aggirare le leggi non sono più estranei alla gestione delle P.A. ed alla politica degradata e quanto spazio questi comportamenti abbiamo aperto alla clientela, al privilegio ed al sopruso, comprendiamo la frustrazione del cittadino, da qui la sua difficoltà a credere e a riconoscersi ancora negli interessi generali e la conseguente tendenza a rifugiarsi in un marcato soggettivismo a difesa dei propri interessi personali, che può finire con l'essere soggiacente ad un sistema mostruoso e perdita della propria libertà nella vana speranza della salvaguardia del proprio utile.

In questi elementi vediamo la grande minaccia allo Stato di Diritto, fondato sull'autorità universale della legge, posta in essere da elementi che cercano di imporre la loro autorità particolare, di vanificare l'effettività del principio del monopolio statale della forza legittima. Dobbiamo costruire una nuova cultura della legalità attraverso un forte richiamo ai valori comuni del nostro popolo, perché quando la legge è sentita come mera sanzione si incrina il consenso sociale favorendo il dilagare del compromesso e della corruzione. Siamo di fronte al problema, morale prima che politico, di individuare l'ethos del nostro popolo per fondare su di esso la voglia di stare insieme secondo valori comuni, la voglia di adempiere ai nostri doveri prima di chiedere l'esercizio dei nostri diritti.

Se leggiamo le cronache parlamentari di questi anni rinveniamo che ogni qualvolta il nostro partito ha proposto misure adeguate per combattere la criminalità organizzata c'è stato sempre qualcuno disposto ad opporsi nel nome del legittimalismo. I drammatici avvenimenti di questi mesi avranno convinto i più dell'urgenza di leggi atte a difendere la comunità e a garantire l'effettività del controllo del proprio territorio da parte dello Stato legittimato e democratico.

I Poteri dello Stato devono serrare i ranghi, agire coerentemente e di comune intesa per dissipare quella cortina di differenza che rischia di separarli del popolo che rappresentano, nel cui nome agiscono e che li legittima. Una opportuna riforma dell'ufficio del P.M. in senso gerarchico, che risponda al Ministro di Grazia e Giustizia, il quale a sua volta riferisca al Parlamento, segue un principio di collegamento già accolto in democrazie che più della nostra praticano la distinzione tra potere giudiziario, esecutivo e legislativo, che poco toglierebbe alla libertà dei giudici, consentendo un intervento più organico ed incisivo.

La risposta della Giustizia ai delitti di stampo mafioso non può essere troppo a lungo differita nel tempo; occorre porre in essere previsioni di legge che consentano di giungere ad una sentenza definitiva entro i termini della carcerazione preventiva. Vista la capacità degli inquisiti per tali delitti, non solo di inquinare le prove, ma di commettere nuovi delitti del medesimo tipo in attesa del giudizio, essi andrebbero tenuti nel più assoluto isolamento fino al giorno della sentenza definitiva. Troppe sentenze di condanna vengono cassate dalla Suprema Corte, il fenomeno che va avanti da anni ha prodotto lo scandalo del febbraio di quest'anno quando 41 boss palermitani stavano per tornare in libertà ed è dovuto intervenire il governo con decreto per impedirlo. È interesse della Magistratura chiarire le responsabilità reciproche al suo interno e fare in modo che episodi del genere non si ripetano.

I Penitenziari italiani sono un inferno per i disgraziati che ci finiscono per delitti di modica entità, una scuola di violenza e di mala vita che finisce per renderli irrecuperabili, i veri criminali, per quel poco che riusciamo a tenerceli, danno l'impressione di essere per nulla disturbati nell'esercizio della loro attività, di essere "rispettati" e di "comandare" dentro come fuori. Dalla natura dei delitti dobbiamo distinguere tra soggetti emendabili, che devono scontare la loro pena in istituti atti alla riabilitazione e .al reinserimento sociale e soggetti non emendabili per i quali va escluso ogni beneficio di legge, in particolare per i condannati per delitti di stampo mafioso, assodata la loro grande capacità di contagio sociale, andrebbe applicato il più assoluto isolamento per tutta la durata della pena.

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Simone Guerrini
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