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Nuova Politica - Referendum a confronto
Dopo la sentenza della Corte costituzionale Referendum a confronto

Prima chiusi nelle biblioteche, per preparare dei quesiti il più possibile chiari ed efficaci, poi nelle strade, per spiegare alla gente il loro progetto; fino a luglio, quando, forti dell'adesione di seicentomila italiani, hanno depositato un centinaio di scatoloni pieni di firme alla Corte di Cassazione. Avevano lavorato a lungo e con passione i promotori dei tre referendum per la riforma elettorale.

Poi la parola è passata alla Corte Costituzionale, incaricata di giudicare la legittimità dei quesiti. E questa, il 17 gennaio scorso, ha reso pubblica la sua sentenza: gli italiani non saranno chiamati a giudicare sulla disciplina elettorale del Senato e dei Comuni, lo saranno, forse, su quella della Camera.

Esprimere un giudizio su tale decisione, prima che ne siano rese note le motivazioni, non è possibile nè corretto. É però utile fare alcune considerazioni sul dibattito politico che ha accompagnato il pronunciamento della Corte, e che ancora occupa le pagine dei giornali.

Il referendum proposto dal Comitato presieduto da Mario Segni e quello sponsorizzato del Psi, sulla repubblica presidenziale, si fronteggiano ormai da mesi nell'agone delle riforme elettorali ed istituzionali; mentre l'attenzione è catalizzata dalla contesa, però, si rischia di dimenticare che i duellanti non sono uguali, e non combattono ad armi pari. Per almeno quattro motivi:

1) Innanzi tutto, uno è previsto dalla nostra costituzione e l'altro no. Mentre il referendum sulla Camera rientra nel tipo di consultazioni che – secondo le parole della nostra carta fondamentale – chiedono "la abrogazione, totale o parziale, di una legge"; quello propositivo propugnato dall 'on. Craxi non ha altra legittimazione al di fuori dell 'approvazione di Giuliano Amato, illustre costituzionalista, ma non tanto autorevole da potersi contrapporre alla volontà dell'Assemblea che nel 1946 ottenne poteri costituenti da venticinque milioni di italiani.

2) In secondo luogo, l'introduzione della repubblica presidenziale comporterebbe, a differenza di quanto richiede il referendum di Segni, una modifica della costituzione, che non è consentita, sempre per volontà dei Padri costituenti, neanche ai referendum abrogativi.

3) In terzo luogo, il referendum sull'elezione dei deputati si inserisce pienamente nel sistema parlamentare e mira a rafforzarlo, attraverso una più piena legittimazione dei singoli rappresentanti.

Quello di marca socialista mira invece a negarlo e scavalcarlo sia perché sposta la centralità verso il presidente della repubblica, sottraendo al parlamento il potere di elegger,o; sia perché personalizza il confronto su tale carica, inquadran do anche i parlamentari non più per la loro individualità, ma appunto per il loro appoggio a questo o quel candidato presidenziale; sia infine perché apre la strada ad uno scontro generalmente incentrato più sulle personalità che sulle idee e sui programmi.

4) Infine il referendum sulla Camera è formulato chiaramente ed il suo quesito è stato sottoscritto da oltre seicentomila italiani; quello proposto dai socialisti, non solo non ha ricevuto sottoscrizioni oltre a quelle dei suoi stessi promotori, ma non ha ancora una stesura precisa, basato come è su un generico appello ad un maggiore efficientismo di impronta demagogico-plebiscitaria.

Conclusione: mentre i tre referendum sulla legge elettorale hanno potuto essere oggetto di un attento e contrastato (si era ben lontani dall'unanimità) esame della Corte Costituzionale, la quale, per qualche aspetto ancora non noto della lettera dei quesiti, ha ritenuto di non ammetterne due; la fumosa proposta del Psi, finché ancora ci riterremo sotto l'imperio della costituzione vigente, non potrebbe neanche entrare nel Palazzo della Consulta.

Fatte queste doverose precisazioni è possibile volgere lo sguardo al futuro, alle prospettive che ancora restano per quei cittadini che hanno visto nei referendum elettorali il mezzo per riconquistare la propria sovranità.

Ad essi sembrano aprirsi due strade: quella dell'impegno per il quesito che ha superato il controllo di costituzionalità e quella parlamentare.

5) Alcuni guardano alla prima strada con sfiducia, sostenendo che il referendum superstite lascia praticamente invariata la disciplina elettorale, e che sostenerlo sarebbe assolutamente inutile. Ad essi è facile replicare, in primo luogo, che esso, mirando a ridurre le preferenze ad una, ed imponendo di scrivere sulla scheda l'intero nome del candidato invece di un semplice numero di lista, opera una vera rivoluzione: da un lato, riduce il rischio di brogli (prativa diffusa nel nostro Paese) ed evita che le schede siano "firmate" (attraverso la combinazione di più numeri e nomi); dall'altro – ed è forse il punto che più incide sulle pratiche elettorali – mina alla base il potere dei "capobastone" di ogni cordata elettorale, "padroni" di ingenti quantità di voti, che vedono, grazie alla possibilità di esprimere più preferenze, moltiplicato per tre o per quattro (a seconda delle circoscrizioni) il loro potere. In secondo luogo si può rispondere che, se è vero che i tre referendum costituivano un unicum incidente sul complesso della nostra normativa elettorale, è altrettanto vero che ad una richiesta di portata minore, può essere attribuito un significato politico maggiore di quello del singolo quesito; è successo altre volte (basti pensare ai quesiti sull'energia nucleare): per i votanti non sarebbe un inganno, ma la possibilità di usare l'unico mezzo che e stato loro lasciato per esprimersi.

6) L'altra via, parallela e non alternativa alla prima, è quella parlamentare. I deputati e i senatori aderenti al Comitato promotore dei referendum – ora trasformatosi in "Movimento per la riforma politica ed elettorale" – potrebbero costituire una sorta di gruppo misto trasversale, promotore in parlamento della riforma che i cittadini non sono più in grado di sollecitare direttamente. I detrattori delle consultazioni popolari temevano un tentativo di scavalcare le Camere; ora la Corte le ha riportate al centro: spetta ad esse – anche dopo lo svolgimento del referendum superstite – approvare una riforma che non sia l'ennesimo cambiare poco per lasciare tutto come sta.

Il parlamento, troppo spesso ridotto a cassa di risonanza della segreteria di questo o quel partito, o, peggio, di questo o quel leader, ha l'occasione di riappropriarsi di tutto il suo potere, svolgendo un ruolo che può garantirgli questa centralità anche per il futuro: perdere tale occasione potrebbe rivelarsi estremamente pericoloso.

La strada da percorrere è ancora lunga, ne siamo consapevoli, ma sono ancora in tanti a voler proseguire. Attenzione però, a non fare passi falsi, a non imboccare scorciatoie che potrebbero nascondere insidie.

La consulta, dichiarando incostituzionali due dei quesiti, ha presumibilmente sacrificato l'opportunità politica (rappresentata, se non altro, dal desiderio di seicentomila italiani) al rispetto di alcune regole. Sarebbe certo possibile criticare tale decisione con tutte le buone ragioni che gli avvocati difensori dei referendum hanno esposto alla Corte, ma non riteniamo sia giusto farlo.

A volte è necessario piegarsi con deferenza a decisioni che pure non si considerano giuste, perché il metterle il discussione significa delegittimare gli organi che le hanno statuite e quindi la legge che li ha istituiti. Un processo pericoloso che riporta alla legge del più forte, e che rendé più potente chi lo è già. Tanto forte da poter apparire "l'uomo della Provvidenza", tanto potente da poter presentare come sogno di libertà l'ingresso di una prigione.

Corsa contro il tempo
Francesco Mazzoli

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