Eppur si muove? Viaggio in URSS di una delegazione dell'EYCD
Delegazioni ufficiali e ufficiose, scambi culturali, gemellaggi tra Est e Ovest non fanno più notizia; almeno non fanno lo stesso rumore prodotto dalle prime delegazioni europee (si pensi a quella guidata da La Pira nel 1963) all'epoca delprimo disgelo seguente alla fase più acuta della guerra fredda.
Ma il viaggio che una delegazione dell'EYCD ha compiuto in Unione Sovietica dal 25 aprile al 3 maggio scorso fornisce perlomeno 2 spunti generali di interesse: accertare, nei limiti del possibile, le dimensiçmi del fenomeno Gorbaciov e della decantata politica della perestrojka e della glasnost; valutare gli spazi e le conseguenze di un dialogo tra giovani comunisti e giovani DC europei alla luce del più vasto confronto che le due organizzazioni giovanilli stanno perseguendo, pur con grosse difficoltà, nel Framework di Cooperazione del 1980. E la dirigenza sovietica sembra assai interessata ad entrambe le prospettive: «vendere» bene l'immagine della nuova Russia e avere contatti con organizzazioni non politicamente omogenee. Fioccano così gli inviti per recarsi a Cuba, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia e Romania; si allarga anche la gamma tradizionale degli ospiti: una settimana dopo il nostro ritorno all'Ovest arriverà a Mosca una folta delegazione di Greenpeace.
Partito da Bruxelles dopo un breve periodo di affiatamento comprendente uno stage di preparazione ideologica sul marxismo-leninismo. Lo scopo del viaggio infatti, al di là delle visite ufficiali, del turismo e della nostra attività «clandestina» consiste proprio in un seminario ideologico dal titolo «Da una filosofia del confronto - Attraverso una filosofia dell'interdipendenza – Verso una filosofia del mondo unito» che ha il significato di una miglior conoscenza reciproca delle 2 organizzazioni e dei 23 relativi sistemi ideologici.
La nostra delegazione è composta da 11 membri: Andrea de Guttry e Filippo Lombardi come presidente e segretario dell'EYCD insieme a rappresentanti della Spagna, Francia, Italia, Svizzera, Belgio, Olanda e Svezia.
Arriviamo a Mosca il 25 aprile con una differenza di due fusi orari e di 16 gradi di temperatura: i fiumi intorno a Mosca appaiono dall'aereo in parte ancora ghiacciati. All'aeroporto, deserto e sostanzialmente inospitale (viene fatto di tutto per trasmettere la sensazione che si è controllati ed osservati), passiamo il controllo con «valigia diplomatica». A differenza cioè di quanto successe nel 1985 al Festival della Gioventù non viene effettuata alcuna perquisizione. I più maligni osservano che i sovietici controlleranno i nostri bagagli con tutto comodo in albergo quando saremo assenti. Da questo momento in poi il nostro viaggio si snoda su quattro binari paralleli: l'aspetto esclusivamente turistico e sociale, il fitto calendario di incontri ufficiali, il seminario ideologico, l'attività «clandestina» di testimonianza e assistenza di alcuni dissidenti dei quali possediamo gli indirizzi, gelosamente nascosti.
Assai limitato appare lo spazio lasciato al semplice turismo, in tutta la settimana avremo soltanto due ore di «freetime». Il resto della giornata viene speso in incontri ufficiali e visite che, sotto l'apparenza turistica hanno invece un forte sapore politico. L'impressione generale che si ricava dall'osservazione della realtà circostante è quella, non originale, di un grande grigiore e di una considerevole povertà, aggravata inoltre dal fatto che ci troviamo nella capitale, una città cioè non rappresentativa, il cui reddito medio è sicuramente superiore al resto del paese. Certamente le code davanti ai negozi non sono più chilometriche (ma ci sono!), le macchine ad uso privato sono aumentate, gli stranieri non vengono più braccati per acquistare i Jeans a peso d'oro, ma questo non elimina altri dati di fatto: il mercato nero del dollaro è rigoglioso; è impossibile trovare un'enorme quantità di generi di prima necessità; in una parola, salta subito agli occhi che ci troviamo non semplicemente in un altro paese, ma proprio in un altro mondo. La conseguenza sui membri della delegazione è che ciascuno di noi, al nostro ritorno, percepirà uno stacco interiore col mondo occidentale ben superiore ai dieci giorni effettivi della nostra visita, una sorta di «ascensio ex inferis». La nostra delegazione, come sempre succede in questi casi, è trattata con tutti i riguardi e il lusso possibile. Al motto di «all the best for the guest» (alloggiamo in camere singole, mangiamo salmone e caviale dalla colazione alla cena, beviamo quegli alcolici che Gorbaciov ha bandito nei limiti del possibile, siamo invitati per due sere consecutive a vedere i balletti del Bolscioj i cui biglietti sono per il cittadino comune introvabili, tutte le nostre richieste insomma sono esaudite con cortesia e rapidità. Ma tutto ciò non allontana due sensazioni assai forti: la prima è che stiamo usufruendo di servizi ed agi che un Ivan qualsiasi non si può nemmeno immaginare; la seconda è che, anche in questa dimensione protetta e. ovattata, in questo sforzo di dimostrarsi all'altezza del tenore di vita occidentale, restano numerosi segni di disorganizzazione e sciatteria: frigoriferi in camera che producono un rumore insopportabile, radio che non funzionano, particolari di arredo come i rubinetti o le maniglie in cui è difficile trovare due pezzi uguali anche nella stessa stanza.
Molto interessante anche se un pò patetico è l'immersione nella vita comune sovietica che i nostri ospiti ci fanno provare in Armenia alla fine del viaggio, mandandoci uno per uno a cena da una «tipica» famiglia armena accompagnati dal nostro interprete. Il giorno successivo ci consultiamo e scopriamo di essere stati tutti e undici a cena da famiglie con la casa in proprietà, la macchina personale, il Tv a colori. il pianoforte, l'impianto stero di marca occidentale:. i padroni di casa, neanche a farlo apposta, svolgono tutti funzioni di direzione locale del partito. È l'ennesimo segnale di quel processo politico di cui sentiamo parlare in Occidente che ci rivela come la riorganizzazione (perestroika) del partito, voluta da Gorbaciov, incontra resistenze proprio nei quadri burocratici di medio-alto livello timorosi di perdere quegli indubbi privilegi di cui godono assieme con le loro famiglie.
Il nostro programma di incontri ufficiali, il secondo livello del nostro viaggio, è assai fitto e ci occupa i primi tre giorni e gli ultimi due della nostra permanenza. Ci alziamo tutti i giorni assai presto e trascorriamo lunghe ore in pullman tra un collegamento ed un altro: questo fatto ha per i più esperti «cremlinologi» della delegazione due significati; indebolire e stancarci per l'imminente seminario, non darci alcun tempo libero per svolgere le nostre «attività clandestine». Fatto sta che quasi tutti i giorni gli incontri previsti per un'ora assai mattiniera vengono slittati all'ultimo momento di un'ora per «motivi tecnici» e così anche gli incontri del tardo pomeriggio. Pertanto, i primi giorni subiamo spesso uno spiacevole stato di frustrazione e di inutilità che ci deriva dal fatto di spendere lunghe ore al ristorante, rientrare in albergo mai prima di mezzanotte, lasciarlo mai dopo le sette, fare lunghi giri viziosi in pullman. Gli incontri ufficiali con la nuova dirigenza del KMO (un'organizzazione-ombrello che raccoglie organizzazioni politiche e culturali di area ovviamente comunista tra cui l'organizzazione giovanile del partito) sono assai poco interessanti: parole d'ordine, slogans, grande appoggio al compagno Gorbaciov, democratizzazione, glasnost, ruolo del dialogo ecc ecc. Nei fatti, il ruolo che il KMO si autoattribuisce nel processo di rinnovamento è assai superiore a quello svolto nella realtà che mostra invece forti sacche di resistenza.
Paradossalmente stimolante è l'incontro con il presidente della Camera delle Nazionalità del Soviet Supremo, una carica istituzionale paragonabile a quella del Presidente del Senato in Italia. All'interno del Cremlino, in una stanza moderna e ovattata, incontriamo questa sorta di residuato dell'era brezneviana, un vecchio e pesante burocrate che loda il nuovo corso, mentre è comune la sensazione che il nostro interlocutore appartenga alla categoria dei conservatori di cui Gorbaciov sta cercando in tutti i modi di disfarsi. Scambio di doni e medagliette, inviti a ritornare presto a constatare «de visu» gli effetti del nuovo corso.
L'incontro forse più interessante dal punto di vista strettamente politico è quello con i due capo-ri ercatori dell'Istituto di Ricerca di Arbatoc, il nuovo ideologo del regime dopo la morte di Suslov. È una visita assai franca con un altrettanto franco dibattito. I due ricercatori conoscono perfettamente la realtà occidentale, i problemi economici e finanziari, le nuov proposte sul disarmo, così come sono consapevoli delle difficoltà presenti dell'Unione Sovietica. Il dialogo si sviluppa perciò con enorme sincerità, ammissione di giganteschi errori fatti nel periodo brexzneviano, volontà di maggior integrazione col resto del mondo, demolizione di alcuni miti del pensiero economico marxista. La sensazione che ricavo al termine dell'incontro è che Gorbaciov sta riuscendo a liberare le energie di quell'«intellighenzia» che era stata così castrata nel passato, ha tutto il loro appoggio, sta cercando insomma di costruire il proprio consenso sul mondo scientifico e della ricerca in modo da poterlo usare per ridimensionare il ruolo di certa burocrazia di partito. Battaglia sicuramente aperta e difficilissima. Ma quest'incontro mi lascia anche un lieve malessere, un'impressione di disagio. In occidente siamo così convinti della superiorità della nostra ricerca, della tecnologia, della nostra organizzazione sociale che non studiamo affatto o troppo poco cosa succede nel resto del mondo. Colpisce invece l'acutezza delle osservazioni, il livello non ideologico delle conclusioni, la capacità di analisi che i ricercatori dell'ideologo Arbatov ci dimostrano. Il programma ufficiale prevede anche due visite a due dei più importanti centri religiosi dell'intera Unione Sovietica: il monastero ortodosso di Zagorsk a pochi chilometri da Mosca, la sede dei cattolici armeni ad Echmiardzin. La seconda di queste due visite giustificata fra l'altro la scelta dell'Armenia quale sede del nostro Seminario ideologico.
Zagorsk ci appare in tutta la sua magnificenza più come un centro turistico che come una sede di pellegrinaggio religioso. Le stupende pitture murali di Andrej Rubliov, l'affascinante culto ortodosso tutto giocato sul canto dei due cori situati all'estremità opposte della Chiesa e sulla comparsa-scomparsa del celebrante dietro l'iconostàsi, è vissuto dalla gente più come spettacolo suggestivo che come momento di raccoglimento. Il pope che ci guida non dà a nessuno l'impressione di una benché minima tensione spirituale. In effetti la condizione della Chiesa ortodossa in URSS è piuttosto particolare. Decimata dalla rivoluzione nelle sue strutture di diffusione del culto (le parrocchie furono ridotte da 54.000 a poche centinaia), la Chiesa ortodossa è stata rivalutata da Stalin dopo la seconda guerra mondiale per il contributo dato alla resistenza antinazista e dalla conservazione della tradizione popolare.
La comunità cattolica armena vive in uno stato di prigionia ancor più marcato. Nell'oasi di Echmiardzin incontriamo il 133° papa armeno, «o catholikos», con il quale abbiamo un franco colloquio. A dispetto della conclamata libertà di culto, credenti ed atei non sono sullo stesso piano: mentre i credenti infatti possono esercitare il culto ma non possono, ad esempio, fare dottrina e aggregazione, cioè quello che i sovietici chiamano «propaganda» è diritto dovere sancito in costituzione per il buon comunista essere ateo e fare propaganda per l'ateismo. Così le chiese sono sempre più frequentate dagli anziani che dai giovani; in poche parole, la speranza del regime è l'estinzione naturale-biologica dei credenti.
Ma il vero scopo del viaggio è rappresentato dal seminario tra l'EYCD e il KMO. Arriviamo a Erevan, capitale dell'Armenia dopo tre ore di volo da Mosca. Erevan si trova vicino al confine con la Turchia; a pochi chilometri da noi si erge innevato il Monte Ararat, noto nella Bibbia per essere stato la tappa d'arrivo dell'arca di Noè. L'Armenia, secondo i depliants di regime, «si è unita all'Unione Sovietica per una necessità della storia in maniera spontanea». La realtà è che ci troviamo immersi in una comunità ibrida che mescola la tradizionale vitalità turca e il rigore e l'ordine sovietico, una delle tante provincie dell'impero costrette a subire una pesante dittatura a partire dalla lingua ufficiale sovietica, nonostante che i sovietici in Armenia siano meno del 2%. Proprio l'estrema frammentazione linguistica, etnica, culturale dell'impero faranno dire, fuori dal dibattito ufficiale, ad un delegato sovietico che ogni forma di pluralismo politico e partitico di tipo occidentale sarebbe impossibile in URSS poiché spappolerebbe l'impero in mille partiti locali.
Dopo inaugurazione ufficiali, conferenze stampa, pranzi d'inaugurazione, iniziamo finalmente il seminario. L'impressione che ne ricaviamo al termine dei colloqui è molto positiva. I sovietici sicuramente vogliono «usare» questa occasione all'esterno sui media come prova di buona volontà e di confronto, ma non hanno l'interesse di approfondire troppo il livello del dialogo. Noi al contrario siamo curiosi di tastare il polso ai delegati che dobbiamo fronteggiare (età media 38-40 anni) proprio per vedere se qualcosa si sta muovendo nell'impero rosso. I risultati sono inattesi: abili e preparati a spiegare tutto e il suo contrario solo nella rigida cornice della dottrina marxista-leninista, i nostri interlocutori appaiono talvolta spaesati se vengono loro contestate le premesse logiche. Al contrario dei ricercatori di Arbatov, molti di loro non hanno sul mondo occidentale dati e informazioni adeguate: risulta quindi non difficile dimostrargli che la realtà è diversa da come la immaginano.
Sulla libertà religiosa, sul pluralismo politico, sulla valutazione dell'era brezneviana la delegazione sovietica si frammenta in molteplici opinioni, arrivando ad esprimere giudizi piuttosto inconsueti quale l'affermazione che il periodo 1964-1984 è stato il periodo più tragico di tutta la storia dell'URSS, frutto di un colpo di stato ai danni di Kruscev, portato avanti da dirigenti non sostenuti dal consenso del popolo sovietico.
L'ultimo binario del nostro viaggio è quello drammatico, non ufficiale, degli incontri con alcuni dissidenti e «marginali» di vario genere per motivi politici, culturali e religiosi. Gli incontri avvengono in condizioni piuttosto difficili dato l'attento controllo al quale siamo sottoposti; siamo costretti a «scappare» la sera dal teatro uno ad uno nel buio dello spettacolo mentre alcuni intrattengono le nostre guide, o a lasciare l'albergo dopo esserci augurati la buonanotte con gli accompagnatori. Gli incontri avvengono in piccolissimi gruppi: ebrei, artisti, alcuni amici che vogliono diventare preti cattolici. È il proseguimento di un'opera di testimonianza e di solidarietà concreta iniziata nell'86 col Festival della Gioventù, talvolta anche prima. Alcuni nostri amici delegati della Scandinavia hanno liste di famiglie delle Chiese Battiste o emarginati segnalati da Amnesty lnternational.
Le opinioni dei dissidenti sono divergenti: alcuni hanno percepito un vero mutamento con l'avvento di Gorbaciov al potere, anche in termini di vita personale e di libertà di spostamento; altri sono invece preoccupati dalla svenevolezza dimostrata dall'Occidente di fronte ad un «offensiva del sorriso» che non ha mutato le cose nella sostanza, ma che ha ottenuto l'effetto di distrarre il nostro tgiisfero dal problema della libertà e dei diritti umani.
Il viaggio si conclude con la manifestazione del 1 maggio sulla piazza Rossa: misure imponenti di controllo, Mosca tirata a lucido, grande spiegamento di militari. Gorbaciov arriva puntuale alle 1O al mausoleo di Lenin e saluta, insieme al Politburò, l'imponente sfilàta dei cittadini, dei delegati provenienti.da diversi ambienti e da differenti province dell'Impero. Negli slogans prevalgono i temi della pace e del disarmo e della ripresa economica. Dopo due·ore di estenuante corteo inizia la parte di danza e d'animazione con centinaia di comparse e ballerini. Durante questo spettacolo finale, i membri delle delegazioni africane a noi vicini, esponenti di quell'elite intellettuale del terzo mondo che l'URSS con abile penetrazione politica fa studiare gratis a Mosca, si guardano fra loro sbalorditi quando i giovani danno luogo sulla piazza ad un'esibizione di disco-dance e ad una di valzer accopagnato dalle famose note di Strauss. L'indottrinamento vetero marxistaleninista a cui è sottoposta quest'elites africana e il bisogno di integrarsi a suon di discomusic con il mondo occidentale sono due facce dello stesso contraddittorio processo che la nuova dirigenza sovietica sta faticosamente portando avanti.
Fare un rapido bilancio del viaggio non è cosa facile. Sicuramente l'immersione in una dimensione così lontana dalla nostra mentalità è un buon ricostituente per il nostro anticomunismo: si badi bene, non quel vetero anticomunismo che ha paura solo della perdita di pochi personali privilegi, acquisiti competendo e non collaborando con gli altri, ma quell'anticomunismo ideologico che nasce da una visione dell'uomo e del mondo totalmente diversa dalla piatta e opprimente antropologia marxista, fondata su un uomo privo di bisogni spirituali e pronta a tradursi in un progetto politico che, per costruire in un domani ipotetico una società perfetta, è disposta a sacrificare intere generazioni di uomini.
Sulla perestrojka e sulla glasnost è difficile dire qualcosa che non sia stato già detto. Sicuramente le riforme in Unione Sovietica si stanno muovendo molto più lentamente di quanto noi siamo abituati, ma, rispetto alla passata, esasperante lentezza cui il popolo sovietico era abituato, la perestroka è un potente detonatore politico in una società oramai ristagnante.
C'è da dire però che niente è cambiato nella dottrina ideologica, della quale sono farciti ampiamente i discorsi di Gorbaciov, stampati e distribuiti gratis in ogni locale pubblico. La riorganizzazione è partita da una necessità di ristrutturazione economica che riportasse alla competitività il sistema; essa si sta estendendo al partito per migliorare l'efficienza dei quadri e della burocrazia, per creare maggior consenso iQtomo alla politica da parte della gente, ma non per promuovere una graduale apertura verso il pluralismo.
Il processo comporta per noi occidentali degli indubbi rischi: può portare nel giro di pochi anni ad inserire nella competizione economica tra Europa, Giappone e Stati Uniti un quarto attore ricchissimo di risorse che pochi anni fa era già dato per spacciato; inoltre ci troviamo di fronte, al contrario dell'era brezneviana, ad un leader politico che conosce molto bene l'occidente e che è sostanzialmente imprevedibile, come ha dimostrato oramai più volte lasciando sbalordite con le sue proposte le ambasciate occidentali.
Ma tutto questo potrebbe avere anche esiti positivi se scuotesse la rassegnata e sonnolenta menalità dell'Ivan sovietico così come sta scuotendo quella degli intellettuali emarginati e oggi in via di riabilitazione: una graduale apertura comporta segnali di maggior flessibilità, maggior capacità critica, migliori opportunità di dialogo da cui è sempre poi difficile tornare indietro come se niente fosse successo. Sotto questo profilo, la sfida che si apre alle nuove generazioni dei giovani democristiani è altamente stimolant ed affascinante; merita dunque di essere raccolta con rinnovato impegno.















