Nuova Politica - Que viva Chile! pagina 2

A quindici anni dal golpe militare il Cile ha rialzato la testa e ha detto «NO», con forza, al regime fascista e militarista del gen. Pinochet.

Una grande vittoria, nel plebiscito del 5 ottobre scorso, che ha fatto gioire tutto il mondo civile e democratico. Anche quello che, passati i furori delle manifestazioni in cui si chiedevano «armi al Mir», si era dimenticato dello sfortunato Paese sudamericano.

È stata una gioia grande soprattutto per i democratici italiani, da sempre vicini al Cile e in particolar modo per i democratici cristiani che hanno seguito con continuità, ora con apprensione ora con crescente entusiasmo, la lunga lotta del popolo cileno contro la dittatura.

Anche noi giovani dc, nel nostro piccolo, ci collochiamo tra coloro che hanno contribuito con la propaganda, con l'appoggio umano, con la presenza a più riprese in quel Paese di nostre delegazioni, al «Trionfo del No».

Non siamo stati, forse, tra i più veloci al momento della vittoria a consegnare il nostro comunicato alle agenzie di stampa, ma non importa. Convinti come siamo che sia la Politica della sostanza e non quella dell'apparenza a pagare, a noi interessa che in prima pagina ci sia il popolo festante del Cile non la nostra sigla.

Senza per questo dimenticare che, mentre molti «rivoluzionari pentiti» procedevano alle esequie ed alle commemorazioni del '68 noi continuavamo a lottare per il Cile, nel silenzio totale dei mass-media, proponendo agli italiani una raccolta di fondi per permettere anche ai cileni più poveri di poter abbattere, con il loro voto, una delle più feroci e sanguinarie dittature che la storia ricordi.

Ma tutto ciò non basta ancora. Con il plebiscito si è aperto solo un varco per la democrazia. Esso va allargato, fortificato, difeso, per arrivare a libere elezioni, prima possibile e con la piena unità d'azione tra le forze politiche cilene di opposizione non violenta. Per quanto ci riguarda il compito è meno pericoloso, lontano dal luogo dove gli eventi si svolgono, ma non meno impegnativo. Quando una dittatura cade, non basta inneggiare e ca/pestarne le macerie. Si deve anche ragionarci sopra per capire ed evitare errori nel futuro di ogni altro Paese.

E cosa ci ha insegnato questo quindicennio di lacrime e sangue del popolo cileno?

Che uno Stato non può essere governato da governi populisti, per esempio. Perché una nazione che si affida a governanti che non fanno i conti con i dati effettivi delle loro politiche economiche, sociali e giuridiche rischia non solo il malcontento generale ma il concatenarsi di «poteri coperti» di cui il nazionalismo ed il militarismo sono solo aspetti esteriori. Lobby, massonerie, corporativismi non sono solo mali del Sudamerica. Esistono anche da noi, e la lotta contro di esse, a fronte di una politica di difesa che renda sempre le Forze armate dipendenti da organi democratici non deve mai perdere la necessaria tensione morale.

E nel campo internazionale o delle diplomazie cosa vuol dire la lezione del Cile? Che l'autodeterminazione dei popoli è il caposaldo di ogni politica democratica e il Fattore «Y» (cioè la concezione nata a Yalta delle «zone di influenza») non può guidare l'azione di politica estera di nazioni realmente democratiche.

L'autodeterminazione dei popoli, inoltre, non può valere solo per quelle nazioni che riteniamo «sicure» perché aderiscono ad una determinata alleanza economica o di difesa. Concetto d'altronde macroscopicamente utilizzato anche nella politica interna quando ogni partito sceglie le sue «nazioni-martiri» da esibire in questo o quel dibattito a mo' di feticcio. È un passaggio difficile, certo. E un limitare, se si vuole, il concetto di sovranità nazionale che molti ritengono di dover applicare anche alle proprie coscienze o alla propria fazione. Ma è un passaggio determinante per avviarci ad un terzo millennio di pace e di vero diritto dei popoli.

Salvador Allende
Rodolfo Carelli

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