Nuova Politica - Trittico polacco pagina 20
Nuova Politica - Trittico polacco
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Il rapporto che lega il governo polacco, Chiesa e Solidarnosc è simile ad un trittico trecentesco: si scrutano l'un l'altro nella assoluta immobilità.

Stalin era un dittatore, ma non un visionario. Il 9 agosto del 1944 si incontrò al Cremlino

con Stanislaw Mikolajczyk, a quel tempo primo ministro del governo polacco in esilio, il quale gli fece presenti i suoi legittimi dubbi sulla politica che presumeva Mosca volesse seguire in Polonia alla fine della guerra.

«Sono dell'opinione», lo rassicurò Stalin, «che il comunismo stia alla Polonia come la sella alla schiena di una vacca». Aveva ragione. Dopo più di 40 anni di potere comunista, ora di rigida ortodossia stalinista, ora di fede riformista, ora tecnocratico, la Polonia è il paese del socialismo reale che meno si può definire sulla strada dell'edificazione della società senza classi e senza stato. Per comprendere quanto poco somigli agli altri paesi del blocco dell'est basta confrontare la diversa sorte di due premi Nobel per la pace: Lech Walesa ed Andrei Sakharov.

Il primo, dopo un anno di prigionia in seguito ad un colpo di stato, è rientrato a Danzica dove ha ripreso a lavorare. La sua attività politica, pur non essendo intesa come ai tempi di Solidarnosc libera, si svolge tuttora in uno stato di semiufficialità.

Il secondo è rientrato a Mosca lo scorso dicembre, reduce da sette anni di esilio interno a Gorki, numerosi scioperi della fame ed il ricovero forzato all'ospedale. Nel marzo del 1985, quando Mikhail Gorbaciov era in visita ufficiale in Francia, Jacques Chirac lo salutò nella sua veste di sindaco di Parigi con una dura requisitoria contro le condizioni di detenzione del fisico dissidente, di cui chiese la liberazione. Il segretario generale del PCUS gli rispose esaltando le bellezze della capitale francese.

Ma nel dicembre del 1986 la situazione è cambiata: l'altra superpotenza si trovà in gravi difficoltà a causa della propria politica estera, in più occorre far dimenticare al mondo occidentale che è appena morto di fame in carcere un altro esponente di spicco del dissenso: Anatoly Marchenko. Pertanto sempre Gorbaciov si cura di telefonare personalmente a Sakharov per dirgli: «Professore, lei può riprendere il suo lavoro». Un lavoro che aveva subito un'interruzione forzata 15 anni prima, in un campo dove stare fermi per un anno significa dover arrancare per altri 5 per recuperare il tempo perduto.

Mandato in esilio senza alcuna condanna penale, ma solo in virtù di un provvedimento amministrativo adottato dal Soviet Supremo, Sakharov rientra a Mosca nelle stesse condizioni di quàndo era partito: nella più completa indifferenza della popolazione sovietica. Ad attenderlo alla stazione sono solo i giornalisti occidentali. Una troupe della televisione sovietica riprende la scena, ma il filmato non viene mostrato né nell'edizione della sera del telegiornale, né in quelle successive.

In URSS l'uomo che ha rivolto alcune dure critiche al regime è prima isolato ed ignorato, ora sembra per- r sino strumentalizzato. In Polonia l'uomo che ha minato con il sindacato indipendente le basi del regime socialista non può essere ancora messo a tacere a 5 cinque anni dalla soppressione di Solidarnosc. Non ha più una gran voce in capitolo, ma la sua semplice sopravvivenza politica è un caso unico per un paese dell'est.

La Germania Est i suoi dissidenti, veri o presunti che siano, preferisce venderli a Bonn (35.000 persone in cambio di un miliardo e mezzo di marchi dai tempi della costruzione del Muro di Berlino); in Cecoslovacchia la spenta dissidenza di Charta 77 trova ascolto unicamente tra i corrispondenti occidentali; l'Ungheria ha Preferito in blocco il socialismo del Gulasch al socialismo del Gulag.

In Polonia ufficialmente il dissenso non esiste. Ma per due volte ha chiesto alla popolazione di non votarè in occasione delle elezioni che il regime voleva per dimostrare che la normalizzazione era un fatto compiuto. La prima volta le autorità hanno dovuto ammettere che l'astensione dal voto aveva toccato la soglia del venticinque per cento. La seconda era sceso al venti. Ma non è un gran successo: nei paesi fratello a votare va in media tra il 95 ed il 99 per cento della popolazione, e la seconda volta il ministero della pubblica: istruzione aveva invitato le maestranze elementari a far svolgere alle scolaresche, il lunedì dopo la tornata elettorale, un tema in classe. Titolo: «Ieri mattina ho accompagnato mio padre a votare». Due anche le amnistie decise dal genetale Jaruzelski. La prima vede la liberazione di numerosissimi attivisti di Solidarnosc arrestati subito dopo il putsch del 13 dicembre del 1981. La seconda riguarda molti detenuti comuni, mentre pochi sono i detenuti politici (ventimila contro duecentotrenta, dice il governo). Ma questi ultimi sono attivisti usciti dal carcere due anni prima e che hanno ripreso a lavorare per Solidarnosc clandestina aiutati da una fitta rete di spalleggiatori. Primo successo della loro attività la creazione di una vera e propria editoria solo ufficialmente clandestina.

La normalizzazione come la intende il generale Jaruzelski, insomma, non riesce a trovare compimento. Così non era successo né in Germania Est nel 1953, né in Ungheria nel 1956. Né in Cecoslovacchia nel 1968.

Discorso diverso invece dopo i disordini di Poznam del 1956, e quelli di Danzica del 1970. Due date che, unite a quella della nascita di Solidarnosc, scandiscono i cambiamenti al vertice del partito comunista polacco. Ogni volta la piazza determina la caduta del leader del partito, al quale ne succede un altro che promette riforme e critica la gestione prececlente.

Con il risultato che tre quarti e più della storia della Polonia comunista sono stati bollati con il marchio del deviatismo e dell'errore.

Lo fece Gomulka nel 1956, lo ha fatto Gierek nel 1970, non ha avuto tempo per farlo Kania nel 1980, ma per lui lo ha fatto il generale Jaruzelski anche dalla tribuna del decimo congresso del partito operaio unificato polacco del luglio scorso. Dal 1981 il generale si è indubbiamente rafforzato. Ma non è riuscito a mettere fuorigioco l'opposizione clandestina, né tantomeno la Chiesa.

Una situazione fluida allora, quella polacca? Piuttosto il contrario. Al momento semmai ricorda alla lontana uno di quei trittici trecenteschi dove le figure che compongono la scena si guardano l'una l'altra nella perfetta immobilità, restando ben divise da una spessa cornice o da una colonnina. La Chiesa ammicca al governo, il quale non perde d'occhio Solidarnosc clandestina. Questa guarda alla Chiesa ma è attenta ad ogni movimento che potrebbe essere compiuto dal Governo.

La chiesa non può ignorare le contraddizioni dell'ultimo periodo di Solidarnosc libera, ma neanche il fatto che Solidarnosc clandestina gode delle simpatie di buona parte del clero e dei fedeli.

Jozef Glemp

Jozef Glemp, arcivescovo di Cracovia, primate di Polonia dal 1981, è alla guida della più importante chiesa del mondo slavo in uno dei tanti momenti decisivi della storia polacca.

Anche lui cerca, al pari del generale Jaruzelski, la normalizzazione dei rapporti con il difficile interlocutore.

Per normalizzazione però l'episcopato intende una cosa ben diversa da quello che ha in mente il regime: il riconoscimento della presenza insopprimibile della Chiesa nella realtà della vita nazionale. Per capire meglio occorre tornare al 1970. La situazione era allora per certi versi assimilabile a quella presente. Una serie di scioperi operai aveva determinato la caduta di Gomulka e l'arrivo al potere di Guerek. Le carte della partita Chiesa-Stato si prestavano ad un rimescolamento favorevole alla prima.

Il 29 dicembre di quell'anno la conferenza episcopale polacca diramò per radio un messaggio in cui chiedeva ben precise garanzie alla nuova leadership. Tra queste il riconoscimento del diritto alla libertà di coscienza «ed alla libertà religiosa» e quello alla «libertà di formazione della cultura nazionale». In altre parole la Chiesa chiedeva, e chiede anche ora, il riconoscimento a livello ufficiale della distinzione tra governo e partito da una parte, nazione e chiesa dall'altra.

Cose che difficilmente un qualsiasi leader del POUP sarebbe disposto a concedere. «Quando ci dichiariamo disponibili al dialogo ed al compromesso «ha ribadito una volta Jaruzelski, «il partito non offre mai concessioni riguardanti il sistema».

Il generale Jaruzelski

Il generale Jaruzelski cinque anni fa si è presentato a tutti (polacchi, sovietici, Chiesa e mondi occidentale) come il minore dei mali. Forse, se si ragiona in termini di Realpolitik, aveva ragione. Ora, dopo aver gestito l'emergenza, cerca di gestire la vita del paese secondo i canoni classici. Esce da cinque anni di isolamento internazionale venendo in Italia (per accontentare la dubbia Ostpolitik di palazzo Chigi e della Farnesina e per parlare per una volta direttamente al parroco – Giovanni Paolo II – senza passare dal sagrestano – il cardinale Glemp). Con Gorbaciov i rapporti sono ottimi: insieme al tedesco Honecker ha avuto (unico tra i leader dei paesi dell'est europeo) l'onore di avere il segretario generale del PCUS al proprio congresso di partito. Con il mondo occidentale ha avviato un nuovo dialogo (più con l'Europa che con gli Stati Uniti) che sta coinvolgendo sempre più gli occidentali nella manovra di risanamento dell'economia nazionale.

Infine sta gettando le basi per ricucire il necessario anche se non desiderato dialogo con l'episcopato. -Secondo però i ruoli della tradizione. Ed ha iniziato con la restaurazione del potere del partito. Al congresso del 1981 del POUP c'erano duemila delegati. Ben 800 ammisero nel questionario che venne loro consegnato di essere iscritti o di avere grandi simpatie per Solidarnosc. Al congresso del 1986 ha parlato dalla tribuna condannando le deviazioni passate. Ma soprattutto ha smesso la divisa di generale e si è cucito su misura la veste del segretario del POUP.

Alla lunga il suo obbiettivo è di ottenere la «sua» normalizzazione: una collaborazione necessaria perché inevitabile con la chiesa per risolvere i problemi economici e sociali del paese.

Creando le premesse per cui la nazione dovrebbe collaborare con il governo per l'edificazione del socialismo. Un progetto utopico.

Leck Walesa

Lech Walesa, capo di Solidarnosc dagli scioperi dei cantieri «Lenin» di Danzica alla soppressione, padre di nove figli (uno dei quali nato mentre era in prigionia), sembra essere il grande perdente della situazione. Paga lo scotto della vittoria dei falchi al congresso del suo sindacato alcuni mesi prima del golpe di Jaruzelski, paga per avere creato un sindacato indipendente quando Lenin i sindacati indipendenti li definiva «una macchinazione controrivoluzionaria» in uno stato socialista.

Paga infine per la paura di quanti credevano che presto o tardi la sua Solidamosc si sarebbe trasferita sotto l'influenza degli intellettuali che avevano fatto capo al KOR in un partito politico di ispirazione democristiana. Un'idea invisa per ovvie ragioni al partito comunista, ma che rallegrava poco anche la chiesa, che da sempre teme la nascita di formazioni che la facciano entrare in prima persona nel gioco politico.

Con lui sono sconfitti anche quanti, politici ed intellettuali, si ponevano il «modello Finlandia», lo stesso che volevano come obiettivo finale anche i moderati all'epoca della rivolta d'Ungheria.

L'eliminazione di questo «terzo incomodo» (divenuto però il modello ed il simbolo dell'opposizione al regime) del dialogo nazionale è auspicata dalle autorità, desiderata anche se non in maniera aperta dalla Chiesa, quasi sancita dalla seconda visita in Polonia di Giovanni Paolo II.

Nel marzo del 1984 Glemp era a Roma. Un giornalista gli chiese cosa sarebbe successo nel suo paese. Il cardinale rispose: «Non si sa. Nel sacco di Solidarnosc si sono trovate le corna più disparate». Gli fece eco quasi immediatamente Jaruzelski: «Né la Chiesa né lo Stato hanno bisogno di conflitto. Però c'è chi prega davanti alle icone ma ha il diavolo sotto la pelle».

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Federico Mioni

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