Un serpente al posto del pesce: le nostre colpe di fronte al terzo mondo
C'è una cortina di ferro che ormai divide, forse per sempre, l'Europa.
Lo affermava alla fine degli anni '40 Sir Wiston Churchill diagnosticando prima di ogni altro leader occidentale ed orientale l'avvento di quella fase nella storia dei rapporti tra le due superpotenze che verrà in un periodo successivo chiamata la Guerra Fredda.
In realtà ora le cortine di ferro sono diventate almeno due. Una divide l'Est dall'Ovest. L'altra il Nord del mondo dal Sud del mondo.
E per certi versi la seconda è ancora più insuperabile della prima.
Non basta cantare «We are the world, we are the children» per risolvere il problema del divario economico tra i paesi di un nord industrializzato, ricco e potente (ma con forti problemi demografici) ed un sud fino a ieri colonizzato ed oggi arretrato, sovrappopolato, affamato.
L'iniziativa di Bob Geldof ha avuto il grande merito di raccogliere ingenti fondi per alcuni interventi nel Sahel. Ma quando il problema è strutturale non si può risolverlo con quelli che sono e restano nonostante tutta la buona volontà dei palliativi.
La città del mondo ha il dovere di soccorrere la campagna del mondo. La fraseologia è tratta da Lin Piao, e forse non é una scelta felice: tante volte dietro queste rivendicazioni terzomondiste non c'è un autentico desiderio di risolvere i problemi, quanto di sfruttarli a fini politici.
Come anche lo stesso Mussolini che all'epoca della Guerra in Etiopia, per giustificare una aggressione ingiusta, prese a chiamare l'Italia «la grande nazione proletaria» opposta alle nazioni capitalistiche «demoplutocratiche» che nel consesso della Società delle Nazioni ne condannavano l'operato.
Ma se è vero questo, se è vero che alcuni paesi del terzo mondo approfittano dell'occasione per ingrassare la burocrazia della capitale a tutto danno delle campagne affamate, se è vero che usano i fondi destinati alla lotta alla fame per discriminare tra i contadini delle zone che chiedono l'indipendenza, è anche vero che il problema non si risolve con l'indignazione e la sospensione degli aiuti. Semplicemente con una più attenta distribuzione di questi. E soprattutto con un intervento che sia al tempo stesso mirato al breve ed al lungo periodo. Un problema strutturale, lo ripetiamo, non lo si risolve con i palliativi. Così affronta meglio magari con una distribuzione dei soccorsi immediati e dei macchinari necessari allo sviluppo futuro che si basi su organizzazioni già esistenti (che esistono e spesso sono molto competenti) piuttosto che affidarsi alla buona volontà, anch'essa, per carità, meritevole ma altrettanto spesso arruffona, delle «dame di san Vincenzo» di stato.
Per riprendere una immagine in questi ultimi tempi usata ed abusata, l'importante non è limitarsi a dare un pesce a chi ha fame o solo insegnargli a pescarlo.
Il problema e dargli un pesce subito per fargli avere le forze necessarie ad arrivare al torrente, e una volta che c'è arrivato insegnargli a costruire una canna da pesca ed a pescare.
«Chi è quel padre che, se il figlio gli chiede un pesce, lui gli dà un serpente?» si chiede il Vangelo.
Il Terzo Mondo il pesce lo ha chiesto. Ma tante volte, per meschine considerazioni politiche e strategiche, l'est e l'ovest ed il nord gli hanno dato un serpente. Invece di aiuti, armi. Invece di medici ed esperti, consiglieri militari.





