Sudafrica

Quel paese in bianco e nero

Nuova Politica - Quel paese in bianco e nero pagina 20
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La prima mossa per risolvere la situazione sudafricana continua a spettare ai bianchi. I vantaggi della soluzione federalista per risolvere la difficile convivenza fra 33 milioni di bianchi, negri, meticci e indiani.

Dopo più di venticinque anni tutti ancora in Sudafrica si ricordano del massacro di Sharpeville, quando il 21 marzo del 1960 una folla di negri si riunì al di fuori del commissariato della cittadina a poca distanza da Vereeniging. Come loro altre folle stavano facendo ressa nello stesso momento davanti ai commissariati di quasi tutto il paese per protestare contro i «pass», o, secondo l'eufemismo delle autorità, i «reference books» introdotti per controllare i loro spostamenti sul territorio nazionale.

Ognuno si preparava ad entrare nel commissariato per far presente di essere sprovvisto dei documenti. Ne sarebbe seguito l'arresto e la condanna ad una pena detentiva, scontata la quale si sarebbe rimesso in fila per una seconda ed una terza volta. Il tutto moltiplicato per centinaia di migliaia di volte avrebbe messo le autorità di fronte alla scelta tra il ritiro dei pass o l'eventualità del collasso del sistema giudiziario nazionale.

Nel resto del Paese la polizia disperse senza gravi incidenti la folla. A Sharpeville aprì il fuoco e ci furono 69 morti. Ne scaturirono due mesi di scontri dopo i quali l'African National Congress venne messo fuori legge ed i suoi capi andarono in esilio, con il risultato che l'organizzazione più seguita tra i negri abbracciò una volta per tutte la lotta armata.

Da allora la situazione in Sudafrica è pressoché immutata. Unico tra i paesi della regione, là Repubblica Sudafricana mantiene ben salda al potere la stessa classe dirigente di ventisei anni fa, che ora come allora non mostra segni di apertura. Sharpeville si è ripetuta da allora diverse volte: a Soweto nel 1976 (i guerriglieri dell'Africa National Congress videro anche dopo quella volta rinforzarsi in maniera consistente le proprie file) fino alle ultime esplosioni di violenza che in meno di un anno hanno fatto quasi duemila morti.

Questo non significa però necessariamente che tra altri ventisei anni a Pretoria dovrà sedere un governo bianco guidato dal Partito Nazionale mentre le leve del potere continueranno ad essere precluse ai negri.

Tutt'altro: mai come ora il Sudafrica è sembrato vicino allo scontro tra la maggioranza negra e la minoranza bianca. Una prospettiva del genere però oltre ad essere sconsigliabile per la prima (l'esercito sudafricano, per la quasi totalità bianco, è la più potente macchina bellica del continente) lo è anche per le nazioni occidentali, e non solo da un punto di vista umano ma anche politico. Un successo delle forze radicali negre, i cui sovvenzionamenti provengono per una cifra esigua da paesi come la Norvegia e per la maggior parte dall'Unione Sovietica, porterebbe ad uno spostamento del paese sullo scacchiere geopolitico dalle conseguenze difficilmente calcolabili.

L'idea di quanti vedono dietro gli aiuti all'ANC una mossa di Mosca per chiudere l'Africa in una tenaglia tra Tripoli e Città del Capo (una manovra simile a quella tentata dagli inglesi nell'800) non è da giudicare poi così peregrina.

È chiaro quindi che una politica occidentale può sposare senza eccessivi contrasti gli interessi politici con quelli umanitari allo scopo di stabilizzare la regione, darle una economia prospera e garantirle quindi la via ad una democrazia compiuta (nel lungo periodo poi questo terzo obiettivo diverrebbe la migliore garanzia per il mantenimento dei primi due).

Lasciando andare invece le cose per il loro verso gli scenari prevedibili sono due: la guerra civile o lo stato d'assedio.

Partiamo dal primo. Il governo non riesce a contenere gli attuali disordini. I moderati non sono più capaci di controllare la situazione che invece permette ai gruppi più oltranzisti di manovrare la piazza. La situazione confusa spinge la tribù Pondo ad attaccare gli Zulu nella speranza di regolamento finale di conti. A questo punto i bianchi decidono l'intervento massiccio della polizia e dell'esercito mentre nascono gruppi di vigilantes che iniziano una serie di azioni punitive nelle townships.

Spinto dagli eventi e sotto la pressione dei profughi bianchi della Rhodesia, del Mozambico o dell'Angola (cioè i più oltranzisti) Pieter- Willelm Botha risponde mantenendo lo stato di emergenza. Gli eccessi della polizia vengono lasciati impuniti così come viene inaugurata una politica di restaurazione delle libertà civili.

Il potere centrale quindi perde di autorità e gli Zulu del Natal ne approfittano per rilanciare le loro richieste del 1983: la formazione di un vero e proprio governo autonomo del tutto indipendente in cambio della protezione delle minoranze bianche ed indiane. Pretoria, le cui truppe sono schierate su altri fronti, deve accettare. Lo stesso avviene altrove, ma non in Transvaal e nell'Orange, i capisaldi degli Afrikaans.

Ne nasce una vera e propria guerra civile. Il destino di tutti gli stati della regione tocca anche al Sudafrica. La soluzione dello stato d'assedio deve avere il suo fascino, se favorevolmente ad essa si è espresso un settimanale della portata di «The Economist». La rivista britannica in sostanza sostiene che la proclamazione di esso farebbe sentire i bianchi al sicuro, porterebbe alla fine dei disordini delle frange oltranziste negre e permetterebbe l'avvio di autentiche riforme da parte del potere centrale una volta calmati gli animi. Ottimo. Solo che è lecito il dubbio che, se lo stato di emergenza non ha fatto nulla se non esacerbare le posizioni, lo stato d'assedio spingerà i negri alla disperazione, bloccando ogni possibilità di iniziativa occidentale. Nonostante le affermazioni di Botha, lo stato di emergenza ha avuto un effetto controproducente, le violenze non sono diminuite e le posizioni si sono radicalizzate.

Durante la campagna presidenziale del 1980 sulla rivista statunitense «Foreign Affairs» apparve un articolo che recava la firma di un professore della Georgetown University, Chester Crocker, il quale attaccava l'allora presidente Carter per la sua politica dura nei confronti di Pretoria. L'arma da usare, assicurava il professore, non è quella dell'isolamento internazionale, ma quella dell'«impegno costruttivo» nella regione. Diamo ai negri le scuole proponeva il professor Crocker, ed un lavoro affinché assumano una forte coscienza di se' e possano lottare poi con mezzi civili per le libertà che gli spettano piuttosto che costringerli ad abbracciare il fucile.

Unico esempio di politica «morbida» scartato da Carter per essere accettato da Reagan, l'«impegno costruttivo» è praticamente naufragato il 9 settembre scorso con l'annuncio delle sanzioni economiche americane contro il sudafrica. Troppo forti per il professor Crocker, troppo deboli per il Congresso, trascurabili per i bianchi sudafricani, esse hanno dimostrato il fallimento della politica non solo statunitense, ma di tutto l'occidente. Da allora una nuova politica occidentale non è ancora uscita dal cantiere.

Se l'abbandono di fatto dell'impegno costruttivo lascia un vuoto difficile da colmare, è anche vero però che esistono alcune iniziative che possono essere adottate immediatamente. Vediamo quali sono.

  1. 1. Aumentare la pressione delle sanzioni economiche.
    Una serie di sanzioni più efficaci potrebbero riguardare il blocco degli investimenti da parte delle industrie legate all'apparato militare sudafricano. Quindi dovrebbero essere chiusi gli uffici turistici in Sudafrica e deciso il boicottaggio Sudafrica Arways. Ultimo passo sarebbe poi un embargo petrolifero. L'economia sudafricana sarebbe in grado di resistere per un tempo limitato all'urto.
  2. Premere per la immediata liberazione di Nelson Mandela.
    Un recente sondaggio del «Sunday Times» ha rivelato che Mandela viene giudicato il proprio leader dal 49% dei negri. Liberandolo, gli oltranzisti perderebbero un martire mentre si guadagnerebbe un possibile partner per eventuali negoziati.
  3. Intensificare i negoziati con tutti i leader negri.
    Questo non vale tanto per Allan Boesak o Buthelezi, quanto per Oliver Tambo e l'ANC. Molti dei suoi esponenti, pur professandosi pubblicamente intransigenti, riconoscono in privato la necessità di intavolare trattative.
  4. Sostenere il principio del suffragio universale.
    La cosa potrebbe essere accettata anche dai bianchi nell'ambito di un sistema federativo.
  5. Assicurare la massima protezione alla minoranza bianca.
    Un buon modello è l'accordo di Lancaster House del 1979, che permette nello Zimbawe una certa coesistenta tra le due razze grazie alle assicurazioni di un certo numero di seggi in parlamento per i bianchi ed il rispetto delle loro proprietà private.

Sulla base di queste misure l'iniziativa occidentale potrà quindi allargarsi ed aprire la strada ad una autentica soluzione del problema che prevede l'idea di uno stato confederato. Ad essa sembrano guardare anche i bianchi progressisti, mentre P.W. Botha si è sbilanciato fino ad auspicare circa sei mesi fa una non meglio specificata maggiore autonomia alle aree regionali nell'ambito di una serie di riforme costituzionali. È un po' poco, se si considera che questa è la maggiore apertura da parte governativa a riguardo. Il federalismo viene auspicato del resto da anni dal Progressive Federa} Party, la maggiore componente dell'opposizione liberal bianca. Inoltre c'è anche la cosiddetta «opzione Natab>, che contempla la fine dell'homeland KwaZulu, uno dei tanti esempi del falso riformismo di Pretoria, e la sua fusione con la più piccola delle 4 provincie sudafricane, dove il governo sarebbe, regolarmente eletto con un sistema proporzionale per il rispetto delle minoranze. Buthelezi, che del nuovo stato diverrebbe il leader, si rifiuta però di intraprendere qualsiasi negoziato prima che non vengano liberati dalle carceri alcuni esponenti dell'opposizione negra, primo fra tutti Nelson Mandela.

La prima mossa per giungere ad un compromesso ed uscire dal vicolo cieco sudafricano continua a spettare ai bianchi.

La soluzione federalista permetterebbe una migliore coesistenza tra i vari gruppi tribali nessuno dei quali supera il 20% della popolazione complessiva di circa 33 milioni di individui. Ecco le cifre:

NEGRI 70%
   Zulu 20%
   Xhosa 18%
   Sotho 13%
   Tswana 9%
   Tsonga 3%
   Ndebele 2%
   Swazi 2%
   Venda 2%
   Altri 1%
BIANCHI 20%
   di lingua afrikaans 10%
   di lingua inglese 7%
   altri 1%
METICCI 9%
INDIANI 3%

African Nationar Congress (ANC)

Fondato nel 1912, da moderato a riformista che era è passato alla resistenza passiva e poi alla lotta armata, condotta con sovvenzionamenti soprattutto so ietici. Il suo leader carismatico e presidente fino al 1962 è Nelson Mandela, attualmente in carcere.
Ha largo seguito popolare, ed anche Desmond Tutu si è espresso favorevolmente nei suoi confronti.

United Democrati Front (UDF)

Riunisce esponenti di tutte le razze e gode dell'appoggio dei religiosi moderati, il che non impedisce forti divisioni al suo interno tra gli oltranzisti ed i propugnatori del dialogo. È guidato da una personalità carismatica: il reverendo Allan Boesak. 

Azanian People's Organization (AZAPO)

Fondata nel 1979, non è troppo distante dalle posizioni dell'ANC. Da essa sono sorti anche altri gruppi oltranzisti come l'organizzazione degli studenti azaniani.

Inkhata

Ufficialmente una «organizzazione culturale» dichiara più di 300.000 iscritti. Raccoglie intorno al capo Zulu Buthelezi tutti i negri moderati e dispura all'ANC la guida del popolo negro.

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