Pur facendo parte della "trimurti" criminale, la 'ndrangheta ha caratteristiche proprie rispetto alle organizzazioni mafiose e camorristiche. Come è not9, con tutte le semplificazioni del caso, le radici culturali e comportamentali della 'ndrangheta affondano nell'epoca del brigantaggio ottocentesco, durante il quale il rapporto tra ceti locali e devianza criminale si è manifestato inizialmente come forma di mutua solidarietà tra i poveri e le piccole organizzazioni, composte all'inizio di "padri di famiglia". Questi ultimi, applicando un regolamento fisso e intoccabile, mantenevano l'ordine all'interno delle proprie comunità, ma consentivano aggressioni di qualunque genere nei confronti delle altre comunità, a meno che si addivenisse a patti. Era la cosiddetta 'ndrina. Il neonato Stato italiano adoperò il pugno di ferro, scavando un fossato per molti versi incolmabile tra le istituzioni e i "neo-italiani": durante le tre ondate di repressione del brigantaggio (1861, 1863, 1865), le truppe piemontesi, aiutate dai pieni poteri concessi loro dalla legge Pica, chiusero la questione meridionale a modo loro fucilando 9860 persone, ferendone 10.604, arrestandone 13.629 e radendo al suolo ben 6 paesi. Nasce in quegli anni, il culto dei "re dell'Aspromonte", dei capi-briganti in grado di rispondere morto su morto ai rappresentanti delle istituzioni: da Musolino a Piromalli, la storia di Calabria e Lucania è anche storia di "briganti-buoni", di capi-criminali portati di bocca in bocca dai cantastorie, con un'aura di leggenda in grado di rendere assai fertile il terreno dell'arruolamento dei più giovani.
Ma questa non-struttura, fatta di eroi e di cosche locali ha prodotto una proliferazione criminale di tipo orizzontale, dove ad ogni frazione territoriale corrisponde un potere criminoso che non deve rispondere a livelli gerarchici superiori. Così la 'ndrangheta, ferocissima nei propri regolamenti di conti (ne fa fede la vera e propria strage che si consuma ogni anno a Reggio Calabria o le mille faide familiari che si prolungano da decenni), esprime una cultura assai più subalterna rispetto allo Stato, difensiva. Uccide senza timori brigadieri e vigili urbani che ne contrastino le attività, ma compie raramente omicidi clamorosi, operazioni-sfida nei confronti dello Stato.
Solo nell'ultimo decennio, il rapporto di tradizionale "buon vicinato" con la criminalità campana e siciliana, unito alla poco felice scelta di inviare al confino in Calabria e in Lucania i boss mafiosi, ha indotto un salto di livello nelle attività della 'ndrangheta: la criminalità calabrese si è gettata così sulla conquista dei grandi appalti pubblici, sulle rotte della droga ed è uscita da quel cliché antico silvo-pastorale conseguendo una massiccia concentrazione proprio nella piana industriale di Gioia Tauro.
Anche in Calabria, prospera la figura del picciotto-imprenditore: il miliardo estorto col sequestro di Paul Getty viene investito nell'acquisto di autocarri per consentire un regime di monopolio nell'autotrasporto, indotto dai lavori di costruzione del porto industriale di Gioia Tauro.
Ma anche la 'ndrangheta calabrese ha subìto le sue sconfitte ad opera della magistratura e della polizia italiana: più di una generazione di "nuova 'ndrangheta" è stata condotta sui banchi di un tribunale subendo pesanti condanne. È questa la storia dei "processoni" al clan Piromalli, al clan Mammoli ti e ad altre cosche che avevano insanguinato la terra di Calabria.
Un capitolo oscuro resta lo stillicidio dei sequestri di persona e "l'organicità" dell'Anonima Sequestri con il potere della 'ndrangheta: dal dopoguerra ad oggi, sono stati oltre 650 i sequestri di persona in Italia, di cui oltre 350 nella sola Calabria: si calcola che nell'ultimo ventennio questo tragico business abbia consentito di fatturare circa 250 miliardi. E purtroppo, dei tanti reclusi d'Aspromonte, taluni per lunghi anni, molti sono tuttoggi prigionieri, mentre altri non sono mai tornati a casa.
Solo a conclusione di questa inquietante sezione del nostro catalogo, va ribadito, forse in modo banale, che la lotta alla criminalità organizzata resta il combattimento con un mostro a 7 teste, con generazioni di cosche, clan e famiglie dall'inesauribile ricambio se non viene a essiccarsi quel serbatoio di devianza giovanile, di rifiuto della legalità, di regole distorte e istituzioni negative, che ne costituisce il fondamento ultimo. E chi, se non la politica, è chiamata a disegnare una alternativa possibile?



