Se la stampa è al centro di forti interessi e di lotte per l'accaparramento, la televisione lo è a maggior ragione.
Con le moderne tecnologie, il mezzo di comunicazione televisivo assume una rilevanza strategica sempre maggiore. A differenza del settore della carta stampata, dove la presenza dei privati è stata fin dall'inizio preminente, nel settore radiotelevisivo si è preferito contrapporre subito ai pericoli di concentrazioni private il monopolio pubblico. La successiva apertura ai privati è in linea col dettato costituzionale: l'articolo 21 sancisce che "tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione...". L'articolo 41 garantisce la libera iniziativa privata.
Ma gli alti costi e la logica concorrenziale del mercato costituiscono grossi sbarramenti alla realizzazione di un effettivo pluralismo. Non rimane che ricorrere a normative di controllo che equilibrino le forze in campo.
La lotta dell'etere ha come protagonisti la Rai, ovvero il servizio pubblico, e la Fininvest, ovvero l'impresa privata di Silvio Berlusconi. A "contrastare" dal basso lo strapotere dei due colossi c'è l'emittenza locale, che si è ultimamente rafforzata grazie al processo di raggruppamento in network nazionali. Le proporzioni sono comunque abissali: Rai e Fininvest insieme assorbono 1'86 per cento dell'audience nazionale, lasciando una quota minima, benché crescente, alle altre reti.
Le leggi e le sentenze della Corte Costituzionale che hanno regolato di volta in volta il sistema radiotelevisivo, sono sembrate più iniziative tampone che non vere soluzioni ai problemi esistenti. Questioni essenziali come la normativa antitrust o il tetto pubblicitario sono state tralasciate per lungo tempo.
Nell'agosto 1990 è entrata in vigore la legge 223, intitolata "Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato", ma meglio conosciuta come legge Mammì.
Il dibattito che ha preceduto il varo del provvedimento è stato particolarmente acceso, portando agli occhi di tutti la delicatezza della materia.
I punti essenziali affrontati dalla legge Mammì riguardano:
- la pianificazione delle frequenze;
- l'istituzione del Garante per la radiodiffusione e l'editoria, ovvero l'estensione delle funzioni di controllo del già operante Garante per l'editoria al settore radiotelevisivo;
- le disposizioni sulla pubblicità;
- la normativa antitrust, attraverso il divieto di posizioni dominanti nell'ambito dei mass media;
- la regolamentazione delle concessioni televisive e radiofoniche.
Le polemiche sulla legge Mammì non si sono limitate al periodo della sua travagliata formulazione.
La vicenda della prima pay-tv italiana, la discussa Tele+1, ha aperto il velo sulle numerose smagliature della legge 223. Lo stesso Garante Santaniello si è recentemente espresso in questo senso. Ad un anno dal varo, le debolezze strutturali della legge sono evidenti. Non è soltanto il problema delle televisioni a pagamento a tenere in allarme, ma tutta la regolamentazione dei nuovi fenomeni – dalla tv via cavo al satellite – e del tetto pubblicitario richiedono rapidi interventi per rimediare alle carenze della Mammì. Se un intervento regolatore nella giungla dei mass media finisce per aprire nuove situazioni di fatto peggiori della precedente, significa che qualcosa non funziona.
La nostra classe politica è chiamata a provvedere in modo determinato, chiaro e completo, per non essere complice di un caos micidiale per la libertà e il pluralismo.


