È notte. Un urlo squarcia il silenzio che regna intorno al «The Mills» una delle tante birrerie sul ciglio di una delle tante «highways» americane.
Una ragazza esce di corsa dal locale cercando di sistemarsi addosso i vestiti ormai laceri. È Sarah, ed è appena stata stuprata.
Così inizia «Sotto Accusa» il film di J. Caplan, recentemente uscito sugli schermi italiani e che già ha destato scalpore e stimolato dibattiti in un periodo già così animato da discussioni sulla legge contro la violenza sessuale.
La pellicola, che si inserisce nel già vasto e a volte inflazionato filone del cinema giudiziario, tenta di far luce su uno dei quattro stupri che ogni quarto d'ora vengono denunciati negli Usa, prendendo spunto da un episodio realmente accaduto.
È lo stupro subìto da Sarah, minuta ed ingenua quanto provocante cameriera del «Mills», che dopo aver fatto la «sciocchina» con i clienti del locale, previa assunzione di qualche litro di birra e mezzo spinello, viene sbattuta su un flipper e violentata a turno da tre uomini, applauditi e incitati da un crocchio di eccitati spettatori.
Lo schock subìto da Sarah è profondo, il travaglio psicologico ancora più drammatico.
La ragazza, segnata da graffi, lividi, ecchimosi, cerca conforto e comprensione, ma viene respinta sia dal ragazzo con cui vive in una baracca, uno pseudo-musicista con il «vizio» dello spaccio, sia dalla madre, in partenza per le calde spiagge della Florida.
Sarah ormai è una ragazza sola, sola con il suo incubo, che potrà cancellare esclusivamente con la vendetta legale: la condanna dei suoi stupratori. Ma Sarah, l'abbiamo detto, è una ragazza ingenua e non sa quanto sia distante la giustizia ideale da quella reale, cosa che invece ben sa Katherine Murphy, il pubblico ministero.
Katherine è una donna totalmente diversa dalla piccola Sarah, è un avvocato attento, assennato, determinato, insomma il prototipo vivente di quella «working giri» oggi tanto di moda oltreoceano, che si discosta totalmente dai canoni femminili classici così ben incarnati da Sarah, con la quale instaura un difficile rapporto.
È l'argomento che occupa la parte centrale del film: da una parte l'ingenua cameriera che chiede giustizia per la violenza subìta, dall'altra il «quadrato» avvocato che stenta a convincersi della reale colpa dei tre uomini, probabilmente istigati dai succianti vestiti di Sarah e da eventuali espliciti inviti dovuti all'effetto della droga e dell'alcool.
La storia è vecchia: cosa può la parola di una ragazza incline all'alcool e allo spinello? Nulla, almeno in sede giuridica. Così crede Katherine, la prevenuta ragazza di buona famiglia, che si accorda con gli avvocati difensori per una condanna minore e generica.
Siamo al dunque i tre uomini non sono colpevoli di stupro, ergo sono stati «adescati» da Sarah.
La vita sociale della ragazza è finita; non che in precedenza ne avesse una brillante, ma adesso le è stato tolto anche il rispetto, le è stata appicciata una fama tanto degradante quanto falsa: quella di donna «facile».
A nulla servono i tentativi di ricostruirsi una vita, ormai lei è Sarah, «quella del Mills che da in smanie erotiche: tutti sono autorizzati a pretendere qualcosa...».
La vita di Sarah è socialmente invalidata, e di questo se ne rende conto anche Katherine che, tra un rimorso e l'altro, riscopre la sua femminilità, stimolata dal rapporto con la cliente.
Ora vuole aiutarla e riparare al torto fattole, ma come? Innanzitutto mettendosi completamente dalla parte di Sarah, riconoscendo, cioè che è stata stuprata; in secondo luogo facendo condannare per stupro i tre uor:nini; infine, intentando una causa contro i presenti allo stupro, accusandoli di «istigazione a delinquere».
Una causa «sui generis» che viene risolta abilmente nel sottofinale con l'ausilio di un «deus ex machina» estremamente originale e inaspettato: la deposizione di un testimone oculare, un ragazzo che quella notte aveva cercato di chiamare la polizia senza, tuttavia, dichiarare il suo nome.
La deposizione è il racconto integrale dello stupro: dieci minuti di violenza (la più lunga della storia del cinema) che percuotono lo spettatore fino al disgusto.
L'arringa finale di Katherine sancisce la vittoria: per Sarah l'incubo è finito, i veri colpevoli sono in carcere.
Il film, che tanti applausi ha ottenuto recentemente al festival di Berlino, si avvale di due attrici già note al pubblico: Jodie Foster nella parte di Sarah e Kelly McGillis nella parte dell'avvocato in gonnella.
Delle due interpretazioni ci convince più quella della bionda Jodie (la ricordiamo ancora piccola in «Taxi Driver») che ben si cala nel personaggio.
Più a disagio ci pare invece la McGillis, forse un po' fuori ruolo in un film che ricorda un episodio analogo da lei vissuto.
Dunque tanti applausi per «Sotto Accusa» e tanti dibattiti prima e dopo il film. La pellicola, che come abbiamo visto si snoda in tre fasi, stimola la riflessione sul suo problema centrale, lo stupro, appunto; e propone tre metodi di interpretazione del problema. Chi è infatti, al di là del giudizio finale, il vero colpevole: la ragazza che provoca, gli stupratori provocati, o gli spettatori che incitano?
Che la prima probabilità sia assurda è cosa ormai unanimemente accettata: una ragazza sensuale che esterna il suo fascino senza tuttavia incitare effettivamente i suoi ammiratori, è realmente colpevole di eventuali pretese da parte di essi? La risposta è nella frase della Foster in un'intervista: «Forse che qualcuno può sostenere che la risposta all'attrazione siano la violenza e la tortura»?
Gli stupratori, dunque, sono i veri colpevoli: essi interpretano distortamente i segni di un esibizionismo che non è assolutamente un segno di invito o almeno, non un invito alla violenza. Violenza che nel film è usata proprio come deterrente allo stupro: un pugno allo stomaco dello spettatore, soprattutto a quello ancora scettico.
E gli spettatori che incitano? La risposta del film è quella dell'America democratica che tutela id iritti della persona: essi sono più colpevoli dei colpevoli. Sono colpevoli non solo di omesso aiuto, non solo di incitamento, sono essi stessi rei di violenza: hanno aggiunto violenza alla violenza.
Questo film esce, come detto in un periodo «caldo» a riguardo nel quale si animano scontri e dibattiti sulla legge contro la violenza sessuale.
Procedibilità d'ufficio o querela di parte? Pubblicizzazione o privatizzazione dei processi per stupro? Noi non vogliamo entrare in merito né speculare su argomenti specifici riguardanti il codice Rocco. L'importante è sottolineare come questi argomenti abbiano finalmente catturato la sensibilità non solo dei cittadini, che rischiano tutti i giorni e che quindi sono naturalmente più inclini ad un certo tipo di problematica, ma anche dei nostri politici.
Ben vengano dunque i dibattiti in parlamento, ben venga il telefono rosa, ben vengano le proposte di centri di soccorso, attualmente confinati in malfunzionanti consultori.
Ben vengano, allora, anche questi film che mettono a dura prova la coscienza civica e sociale degli spettatori, facendo pensare loro che mentre la pellicola scorre, qualche povera ragazza al Circeo, o vicino Piazza Navona, o in qualche altra parte d'Italia viene stuprata.


